Giuliano Malizia
La cucina romana ed ebraico-romanesca
Oltre duecento ricette per gustare il meglio
di un' antica tradizione culinaria che ha saputo conservare
nel tempo la semplicità e la genuinità originarie
La cucina romana
Suggestivo scorcio di Roma in un'antica incisione.
Introduzione
La prima fondamentale caratteristica che attribuisce alla cucina romana una personalità tutta sua, è dovuta alla preferenza delle cose genuine e semplici, per cui ogni tentativo di complicazioni culinarie internazionali viene allontanato con netto rifiuto. Genuinità e semplicità quindi hanno permesso alla cucina romana di rimanere fedele alle proprie origini, guidandola il più possibile verso l'intelligente uso dei meravigliosi doni offerti dalla natura.
Chiunque desideri manipolare tra fornelli e pentole ha bisogno soprattutto di amore e pazienza, gli ingredienti fondamentali e indispensabili capaci di rendere palpitante soave e gagliarda ogni pietanza, curandola minuto per minuto secondo le norme e gli accorgimenti tramandati dalla tradizione culinaria romana.
Il difficile sta nell'evitare con ogni sforzo di cadere nella rete della miriade di ricette fantasiose e accattivanti, «ma», dice L. Jannattoni, «sempre più intricata in gioco di combinazioni che sfida spesso l'assurdo e tende all'infinito», con la complicità dei mass-media costantemente impegnati a stringere d'assedio la nostra attenzione.
Il ritorno in seno alla natura più schietta nasce dal vivo desiderio sempre crescente di puntare più verso la tradizione che verso la novità. E allora tutto quello che un tempo rientrava nei menù della povera gente, oggi fa bella mostra di sé nelle guarnitissime e allettanti tavolate poste agli ingressi dei migliori ristoranti. Eppure quei cibi così semplici erano un tempo i padroni delle mense dei meno abbienti e nascevano dai pochi ingredienti che una madre saggia ed esperta sapeva sfruttare con amore e pazienza seguendo un ricettario ereditato da chi l'aveva preceduta. Insomma la cucina romana, casalinga e casareccia, non è quella delle salse manipolate e delle mescolanze inventate in maniera strana, ma è la cucina in grado di offrire solo quello di cui si può disporre in casa e che, magari con un certo sforzo economico, non si fa mai mancare: strutto, guanciale, ventresca, grasso di prosciutto, olio di oliva, sale, pepe, peperoncino.
Abbiamo detto fino adesso «cucina romana» per un'indicazione generica. In realtà però bisogna essere maggiormente precisi, perché gli storici della cucina ci tengono molto a sottolineare una netta distinzione con la pignoleria che li distingue: la cucina romana è quella della Roma imperiale e la cucina romanesca è la successiva giunta fino ai nostri giorni. Ai fini di una spiegazione più ampia è bene aggiungere che la cucina romanesca si divide a sua volta in «cardinalizia» e «popolare»: nella prima rientrano i cibi più costosi e nella seconda le povere cose a base di frattaglie e ortaggi. È interessante anche sapere che la cucina offre piatti deliziosi e paradisiaci come ad esempio la stracciatella, gli involtini di manzo, il fritto, i carciofi, la cicoria «strascinata» in padella, l'insalata di pomodori. Alla cucina romanesca appartengono invece le pietanze più alla buona, ma di gran gusto come i rigatoni con la pajata, le minestre di pasta e ceci, pasta e patate, pasta e fagioli, pasta e lenticchie, pasta e broccoli, la coda alla vaccinara, la trippa alla romana, i fagioli con le cotiche, i carciofi alla romana e alla giudia e... l'elenco non si esaurisce qui. Insomma la cucina romana, qualunque veste indossi, rimane sempre la cucina più vera, più genuina, più appetitosa, dai profumi e dai sapori capaci di risuscitare un morto. È il caso di dire che davanti a un piatto romano è come sentirsi invitati a entrare in un mondo di favola, dove le preoccupazioni e le amarezze hanno divieto di accesso, perché l'anfitrione ufficiale è la gioia di vivere. Coloro che non sono d'accordo si lascino adescare almeno una volta dall'atmosfera pantagruelica dei buongustai romani. Forse a cavallo dell'eco il proverbio tornerà a ripetere: «a magnà e a grattà tutto sta a incomincià».
In questo nostro lavoro ci permettiamo, nei limiti concessici, di suggerire il meglio della cucina di Roma, ossia quello che maggiormente ha acquistato considerazione, simpatia e fama nel mondo dell'arte culinaria. Le leccornie quindi che hanno conquistato i veri buongustai sono trattate nel rispetto della loro genuinità in obbedienza ad una tradizione che, grazie a Dio, continua a mantenersi viva, nonostante i continui mutamenti storici e la sempre più crescente internazionalità di Roma.
Antipasti

Tanto per stuzzicare l'appetito cominciamo con gli antipasti, senza però soffermarci troppo sull'argomento di cui il buongustaio farebbe volentieri a meno. Tuttavia una «svojatura» potrebbe servire a superare le smanie dell'attesa e a predisporre lo stomaco al godimento di ben altri succulenti piaceri. Così sono ben gradite un paio di fette di prosciutto di montagna accompagnato, secondo la stagione, da una fetta di melone sbucciata o da qualche fico bruciotto. Accanto si potrebbe dare posto nel piatto a un fiocco di burro, un'acciuga sott'olio e un carciofino. Ma, ripetiamo, niente di impegnativo. Se si vuole andare poi incontro a qualcosa di appetitoso, diamo spazio ad una bella fetta di pane casareccio, tolta dalla brace o dal forno appena «bruscata» e senza bruciacchiature, e vi si strofini sopra l'aglio, tanto quanto piace. Poi, fattovi piovere un po' di sale, vi si cosparga l'olio puro di frantoio in maniera che penetri lentamente nei pori del pane. Ecco come nasce la «bruschettà». Certo dopo la degustazione di un bocconcino di tal fatta, bisogna stare attenti nel tirar fuori le parole, perché in bocca non sono spuntati purtroppo i fiori. «Ma l'alito», diceva Aldo Fabrizi, «profuma de salute» e aggiungeva concludendo «l'ajo è contro l'infezione, / l'ojo, pe chi va duro, è toccasana». E in tal modo, da saggio quirite, univa l'utile al dilettevole.
A questo punto è d'obbligo introdurre nel nostro discorso un'altra leccornia non appartenente però alla serie degli antipasti come vogliono lasciar credere molti ristoratori di oggi. La «panzanella» rientra nella merenda che le nostre nonne ci preparavano a metà pomeriggio.
Presi alcuni pezzi di pane raffermo, li ammollavano nell'acqua fredda per pochi secondi, poi, spremutili appena appena con le palme delle mani, li spruzzavano d'olio e di un goccio di aceto. Condivano poi il tutto con un pizzico di sale e alcune foglioline di basilico ridotte a pezzetti. Il basilico, qualora dovesse mancare, potrebbe essere sostituito dalla maggiorana o dalla salvia. Volendo, il condimento della panzanella permette di essere arricchito anche con piccoli cubetti di pomodoro e con un pizzico di pepe. In tal caso però viene annullata la tradizionale semplicità di questo cibo unitamente allo scopo per cui, le nostre nonne, vi mettevano mano.

«Trasteverina, ballando il saltarello», incisione di Bartolomeo Pinelli.
Primi piatti

La minestra
Come si fa a rinunciare a un' abbondante scodella di minestra, elaborata con paziente cura?
Il buongustaio romano non tradisce mai il proprio palato privandolo delle gustose cucchiaiate gocciolanti di saporoso condimento nato dalla felice unione della pasta o del riso coi sempre benedetti legumi e particolari verdure.
Connubio meraviglioso facilitato dalla ruffianesca complicità di un fondo di cottura in cui entrano in azione «gli odori», ossia le spezie e le erbe richieste per la preparazione delle varie minestre, con l'unione dell'olio di oliva, in obbedienza agli usi del tempo in cui attualmente viviamo. Ma negli anni passati, fino al periodo del primo dopoguerra, ossia fino a quando ci si poteva ancora fidare della genuinità dei grassi animali, in particolare di quello di maiale, al mattino presto da una cucina all'altra dei vari caseggiati prendeva il via il canto delle «battilonte», un coro, potremmo dire, a più voci che tra le pareti domestiche segnava l'inizio di un lavoro culinario da concludere all'incirca durante il festoso canto delle campane di mezzogiorno.
La battilonta, caduta ormai in disuso, non era altro che una tavoletta rettangolare di legno piuttosto spessa, immancabile nell'arredo della cucina.
Le massaie se ne servivano per preparare il «battuto», ossia la base di cottura, senza olio, per la preparazione delle minestre. Sotto i colpi di un coltellone bene affilato un pezzo di lardo in compagnia del sedano, della cipolla o dell'aglio (o di ambedue insieme), della carota o radica gialla, del prezzemolo, veniva ridotto in una poltiglia pastosa da versare nella pentola, possibilmente di coccio.
In poco tempo in tutta la casa l'aria si impregnava del profumo fragrante di un «soffritto» che ormai, e non crediamo per molto tempo ancora, rimane un nostalgico ricordo di chi ebbe modo di gustarlo e apprezzarlo.
Pasta e fagioli
Cominciamo col dare la precedenza alla minestra regina delle minestre, che, nonostante la perdita del battuto, ha sempre qualcosa in grado di cavarla d'impaccio: le cotiche e l'osso di prosciutto. In quanto ai fagioli, se si usano quelli secchi, si deve avere l'avvertenza di metterli a bagno la sera prima, per lasciarli cuocere poi a fuoco lento in una pentola di coccio con una mezza costola di sedano, una carota e mezza cipolla. Ma l'ideale sono e restano i fagioli freschi che, una volta sgranati, vanno cotti come i precedenti.
In una pentola a parte si fa sciogliere il battuto, oppure si crea un soffritto con olio, carota e cipolla, o aglio se si preferisce. Appena la cipolla s'indora, si versa 1/3 di bicchiere di vino rosso asciutto e lo si lascia evaporare. Poi si aggiunge qualche pomodoro ridotto a pezzetti e quando il sugo comincia ad addensarsi, si versano i fagioli insieme all'acqua, quanto basta, in cui sono stati lessati. Se si preferisce una minestra più densa e «legata», è sufficiente «passare» una parte dei fagioli. Un'altra combinazione si ottiene lessando insieme i fagioli, cannellini o borlotti, alcune listelle di cotiche sgrassate e sbollentate per bene, oppure un osso di prosciutto pulito a dovere.
A fine cottura si versano le cotiche, o i brandelli di carne staccati dall'osso, e i fagioli nella pentola dove, al momento giusto, dovrà cuocere anche la pasta. In quanto a quest'ultima si può scegliere tra quella fatta in casa e tagliata a pezzi, i cannolicchi pesanti, gli spaghetti spezzati e i resti delle diverse qualità di pasta, detti «minuzzaglia» e presentemente messi in commercio dagli stessi pastifici con la denominazione di pasta mista.
Per quattro commensali occorrono: 500/600 g di fagioli freschi, o 350 g di quelli secchi, quattro o cinque cotichelle di maiale oppure un osso di prosciutto, 1/2 di di olio di oliva, 1/3 di bicchiere di vino rosso asciutto, aglio, 1/2 cipolla, una costa di sedano, 250 g di pomodori, sale e pepe, 50 g di lardo o di grasso di prosciutto per il battuto, 300 g di pasta, preferibilmente mista.
Pasta e patate
Si fa soffriggere in una cucchiaiata di strutto o di olio un battuto di 50 g di guanciale, mezza cipolla e un ciuffo di prezzemolo. Poi, aggiunta dell'acqua insieme a quattro o cinque patate tagliate a piccoli dadi, si lascia che il tutto insaporisca con sale e pepe. Appena le patate hanno raggiunto la cottura, si allunga con altra acqua, se necessario, e al primo bollore si buttano giù 300 g di cannolicchi o di spaghetti a pezzi. La minestra è pronta per essere servita, dopo aver fatto piovere su ciascuna scodella del pecorino grattugiato.
Pasta e broccoli
È la minestra maggiormente celebrata dai buongustai romani, a condizione che il broccolo sia autenticamente romanesco, ossia che abbia i fiori verdi e la cupola a punta. Questo è bene sottolinearlo per evitare confusione con il cavolfiore, che è decisamente tutta un'altra cosa.
Per sei commensali occorrono 50 g di prosciutto grasso e magro ridotto a pezzetti e due spicchi d'aglio per preparare il battuto da far soffriggere con un cucchiaio di strutto o di olio d'oliva. All'indorarsi del tutto si versano i fiori del broccolo romanesco ben puliti e tagliati a tocchetti e si lascia insaporire il tutto. Subito dopo si aggiungono circa 30 g di passata di pomodoro, un po' di sale, un pizzico di pepe e 150 g di cotiche ben raschiate e già cotte, insieme allo stesso brodo, bene sgrassato, dove hanno bollito tagliate a listelli. La pentola deve bollire fino alla cottura del broccolo, poi vi si buttano giù 300 g di pasta: spaghetti a pezzi o, preferibilmente, bucatini anch'essi a pezzi. Attenzione: la cottura deve essere al dente. Appena pronta, la minestra va servita con un' abbondante pioggia di pecorino.
La pasta e broccoli può diventare anche minestra di magro. È sufficiente sostituire il prosciutto, le cotiche e la loro acqua, con brodo di arzilla, o merluzzo, e con l'aggiunta di un'acciuga salata a pezzetti.

Pasta e ceci (per sei persone)
Se si usano i ceci secchi, è necessario metterli a bagno la sera precedente in acqua tiepida con l'aggiunta di una puntina appena di bicarbonato (oppure un cucchiaio di farina). In una pentola di coccio si fanno soffriggere, con una cucchiaiata di strutto o di olio d'oliva, tre o quattro spicchi d'aglio, poi si aggiungono 250 g di ceci, sale, pepe e un rametto o due di rosmarino; da ultimo si copre il tutto con acqua. In un altro pentolino si fanno intanto soffriggere altri due spicchi d'aglio, quattro o cinque pomodori pelati ridotti a pezzetti e i filetti di quattro acciughe salate bene tritati. Appena pronto, il soffritto va versato nella pentola dove sono stati lessati i ceci e, se necessario, si allunga con dell'acqua e si lascia quindi che il tutto raggiunga l'ebollizione. Al momento giusto si toglie l'aglio e il rosmarino e si buttano giù 300 g di cannolicchietti. A cottura ultimata si aggiunge un po' di olio d'oliva crudo e il pepe secondo i gusti.

«Esterno di una Osterìa di Campagna», incisione di Bartolomeo Pinelli.
Quadrucci all'uovo con piselli
Per il rispetto dovuto alla tradizione della cucina romana, questa minestra non può fare a meno del battuto in compagnia dello strutto. Ma i tempi sono cambiati e continuano a cambiare e lo strutto, quello verace, beato chi lo trova! E allora non c'è altra via d'uscita ali'infuori di quella dell'olio d'oliva che, per nostra fortuna, lega bene tanto con il lardo quanto con il guanciale.
Dopo questa premessa che riteniamo fondamentale, cominciamo a preparare sulla «spianatora» la pasta con tre uova, 250 g di farina e un pizzico di sale e lasciamola poi riposare una mezz'ora. Subito dopo tiriamo le sfoglie e ritagliamole in quadrucci.
Intanto nella mezz'ora di riposo concesso alla pasta prepariamo un battuto con 50 g di grasso di prosciutto, un ciuffo di prezzemolo, una costola di sedano, una cipolla, uno spicchio d'aglio. Fatto rosolare il tutto nell'olio d'oliva, si aggiunge un cucchiaino di salsa di pomodoro e acqua a sufficienza. Si lascia quindi bollire per alcuni minuti e immediatamente dopo si aggiungono 250 g di piselli sgranati, sale e pepe. Ottenuta una cottura a fuoco lento, si buttano giù i quadrucci, controllando che la minestra non riesca troppo brodosa.
Su ogni porzione, via via che viene servita, si lascia cadere una pioggerellina di parmigiano grattugiato.
Un'altra versione della pasta e piselli è quella di magro. Basta sostituire ai grassi e all'acqua il brodo dove è stato lessato il pesce. Vi si fanno allora ribollire a lungo le teste e le spine per poi passarle. Il soffritto richiede uno spicchio d'aglio, un po' di pomodoro, una acciuga salata, un peperoncino e del prezzemolo. Si ottiene così un intingolo saporito cui si può aggiungere qualche avanzo di pesce e anche qualche gamberetto: tutto fa brodo.
Finalmente si aggiungono i piselli, già insaporiti a parte con olio, cipolla, sale e pepe, e i quadrucci fatti in casa.
Minestra di broccoli con l'arzilla
Si tratta di un piatto che in casa mia veniva accolto con tutti gli onori grazie alla sua gustosissima semplicità. La sua ricetta è stata tramandata da epoca remota di madre in figlia e non so quanto potrà ancora resistere al logorio della vita moderna.
L'arzilla, ossia la razza, è apprezzata soprattutto dai più giovani, perché non ha spine e la sua impalcatura scheletrica è completamente cartilaginea. Tuttavia l'arzilla più apprezzata, e pertanto più gradita al palato, deve contenere le pietruzze, specie di sassolini bianchi durissimi che le permettono di essere presa in maggior considerazione, perché giudicata più saporita.
Per 6 persone occorrono i seguenti ingredienti: un'arzilla di 2 chili, una cima di broccoli verdi romaneschi da 1 chilo e mezzo, 4 etti circa di pasta, mezzo chilo di pomodori pelati, 2 spicchi di aglio, 3 filetti di alici, olio, sale, sedano, cipolla e peperoncino.
L'arzilla va cotta in acqua e sale con l'aggiunta del sedano e della cipolla. In un'altra pentola si versa l'olio (abbondante), l'aglio ridotto a pezzettini e i filetti di alici. Fatto rosolare il tutto, si versa il broccolo tagliato secondo le cimette. Una volta insaporito il tutto con peperoncino e sale, si lascia cadere una sorsata di vino bianco e subito dopo si aggiungono i pomodori. Il brodo dell'arzilla entra nella pentola 3 o 4 minuti dopo e una volta che il broccolo ha raggiunto la cottura, si butta giù la pasta (linguine a pezzetti, o cazzetti d'angelo o piccole pennine da minestra).
L'arzilla intanto distesa nel piatto, va condita con olio, limone e prezzemolo, per essere accolta festosamente come secondo piatto dai commensali buongustai.
Minestra di farricello (per sei persone)
Si raschiano 200 g di cotiche, appena tagliate da un prosciutto, altrimenti potrebbero essere rancide, e si sbollentano per dieci minuti circa, poi, sgocciolate, si passano sotto l'acqua, si raschiano di nuovo e, qualora avessero ancora qualche pelo, si lasciano lambire dalla fiamma del fornello. Tagliate quindi a quadretti si versano in una casseruola per farle cuocere a fuoco moderato in due litri e mezzo d'acqua fredda appena salata. Si prepara poi, per soffriggerlo a parte, un trito di 100 g di grasso di prosciutto, uno spicchio d'aglio, qualche rametto di maggiorana, una cipolla. Appena il trito s'indora si aggiungono 500 g di pomodori passati e una cucchiaiata di prezzemolo e basilico ben tritati insieme. Si lascia che il tutto insaporisca per circa dieci minuti e poi si aggiungono le cotiche con il loro brodo e si porta il tutto a ebollizione. A questo punto si butta giù a pioggia il farricello (700 g) accuratamente pulito, come si usa fare col riso, e ben lavato con acqua fredda.
Durante i venti minuti occorrenti alla cottura è necessario mescolare di continuo con un cucchiaio di legno perché il farricello tende ad attaccarsi al fondo della pentola.
Tolta dal fuoco, la minestra, prima di essere servita, va condita con pecorino grattugiato.
Stracciatella
Per sei persone occorre preparare circa due litri di brodo di carne, meglio ancora se di gallina da ruspo. In una terrina intanto si versano quattro uova, tre o quattro cucchiaiate di semolino e tre di parmigiano grattugiato, un cucchiaio, se piace, di prezzemolo tritato finissimo, un pizzico di noce moscata, sale e un mestolo di brodo freddo. Armati quindi di forchetta o di una piccola frusta si sbatte il tutto e lo si versa poi d'un colpo nella pentola dove il brodo ha raggiunto il bollore. Si mescola ben bene agitando velocemente in modo da permettere alle uova di disgregarsi in tanti minuti straccetti: nasce così la stracciatella che va servita arricchita di altro parmigiano grattugiato.
«Er pane»
Fresco, odoroso, de bella presenza
a forma de pagnotta o sfilatino,
so pieno d'umirtà, ma in apparenza
perché me sento invece un principino.
Cor lievito e cor sale, e a vorte senza,
levo la fame pure intinto ar vino
e nelle diete de chi va in crescenza
so' ricercato in forma de grisino.
Peccato si quarcuno me disprezza
appena che divento pane tosto:
la vita mia finisce a la monnezza.
Allora spero solo che là sotto
un povero me prenne de nascosto,
pe poi scialà co un piatto de pancotto.

«Er pancotto»
Si tratta di un piatto modesto, ma molto appetitoso specialmente per le fredde giornate invernali.
Tuttavia desideriamo premiarlo proponendolo con una nostra ricetta in versi.
Er pane tosto pure è providenza
e nun se butta mai come rifiuto;
e ner momento che te serve aiuto
t'aspetta ar varco, in fanno a la credenza
co la risoluzione pronta, appena
te viè un problema a pranzo oppure a cena.
Abbasta preparaje un connimento
d'ojo d'oliva, assieme a pepe e sale,
pe facce sguazza Vajo in modo tale
che balli er sartarello a foco lento.
E l'ajo frigge, schizza, se fa d'oro,
ma poi s'affoga a mollo ar pommidoro.
E ne lo strazzio d'un calore atroce
la pila bolle e nasce quer sughetto
che aspetta l'acqua pe formà er brodetto
d' un rosso come er foco che lo coce.
E sopra l'ale der profumo vola
er desiderio de peccà de gola.
La lama der cortello giustizziere
intanto affanna, taja, s'affatica;
tanto de crosta e tanto de mollica:
er pane se sparpaja sur tajere.
Un tuffo drento ar brodo: er pane jotto
se gonfia de sapore e fa er pancotto.
«Distribuzione del pane ai Contadini nell'interno dell'Anfiteatro Flavio», incisione di Bartolomeo Pinelli.
Riso e indivia
Questo piatto, prettamente romano, è molto gustoso e rinfrescante, anche se appartiene alla cucina della semplicità. Per sei commensali occorre mezzo chilo circa d'indivia, di quella vera a foglie frastagliate, da far cuocere, ben pulita e sciacquata con pignoleria, o nel brodo di carne o nell'acqua. Nel primo caso, appena l'indivia è quasi cotta, si aggiungono 300 g di riso lasciando che la cottura stessa si completi. Nel secondo caso si fa soffriggere nell'olio un battuto di guanciale (o pancetta), cipolla, aglio, sedano, carota, sale e pepe; poi si aggiungono i pomodori pelati (a piacere), l'acqua necessaria e l'indivia che deve arrivare quasi a cottura completa. A questo punto si versano 300-350 g di riso per ottenere una minestra non brodosa, ma piuttosto densa.
Riso e lenticchie
Ingredienti per 6 persone: 400 grammi di lenticchie, 400 grammi di riso, 100 grammi di grasso di prosciutto, cipolla, spicchio d'aglio, sedano, pomodoro, olio d'oliva, sale e pepe.
Per una notte intera si lasciano le lenticchie a bagno, per poi lessarle. In una pentola si fa rosolare il trito composto di grasso di prosciutto, cipolla, aglio e sedano. Quindi va aggiunto il pomodoro e si allunga il tutto con brodo di dado e lo si fa cuocere per alcuni minuti. Si aggiungono a questo punto le lenticchie e si lascia insaporire il tutto, allungandolo, se necessario, con l'acqua di cottura delle lenticchie. Al momento dell'ebollizione si versa il riso che richiede per la cottura circa 20 minuti.
Se piace, si lascia cadere una spolverata di pepe.
Riso e piselli
Ingredienti per 6 persone: 400 grammi di piselli sgranati e altrettanti di riso, 100 grammi di guanciale (o grasso di prosciutto), olio d'oliva, cipolla, sedano, carota, prezzemolo, pomodoro, sale, pepe e parmigiano (o pecorino) grattugiato.
In una pentola contenente olio d'oliva si lascia imbiondire il trito di guanciale (o grasso di prosciutto), cipolla, sedano, carota e prezzemolo. Quindi si versa il pomodoro, si allunga con acqua calda o brodo e vi si aggiungono i piselli sgranati. A metà cottura si aggiungono pepe e sale e, qualora fosse necessario, anche altra acqua o altro brodo. Appena viene raggiunta l'ebollizione, si butta giù il riso per la cui cottura occorrono 20 minuti circa.
Quando tutto è fatto, il riso va condito con parmigiano (o pecorino) grattugiato.
Riso e fagioli
Ingredienti per 6 persone: 300 grammi di fagioli (preferibilmente cannellini), 300 grammi di riso, guanciale (o grasso di prosciutto), olio d'oliva, cipolla, aglio, sedano, pomodoro, sale e pepe.
Si tratta di un piatto gradevolissimo, anche se molto semplice. Scrive Jannattoni: «Il riso annega nella cremosità dei fagioli, sostenuti dal condimento, specie se una parte dei fagioli stessi è stata passata, "sfranta" con la forchetta. Deve essere infatti piuttosto densa». Il trito si fa soffriggere nell'olio e poi si aggiunge il pomodoro. Si lascia insaporire il tutto e a poco a poco si versa acqua calda o brodo di dado, o, meglio ancora, un po' dell'acqua di cottura dei fagioli. Si condisce poi con sale, pepe e fagioli lessati a parte. Trascorso qualche minuto, si butta giù il riso. Dopo 20 minuti si toglie la pentola dal fuoco e si serve.
Buon appetito!
Il discorso sulle minestre non si esaurisce qui, ma preferiamo limitarci ai piatti classici della cucina romana tradizionalmente famosi, ossia a quei piatti che non possono e non devono cadere nel dimenticatoio. Lo stesso discorso vale per le ricette della pasta asciutta, dei secondi piatti e dei contorni.
Risotti
Quello che stiamo per trattare è il risotto classico al sugo di carne, arricchito di regaglie di pollo e, volendo, di funghi secchi, messi però almeno per mezz'ora a mollo in acqua tiepida.
È un primo piatto, il risotto, che richiede pazienza e tempo, per cui è inutile con lui forzare la mano per costringerlo a cuocere nella pentola a pressione. In una pentola invece abbastanza capiente si mette dell'olio d'oliva, 50 g di cipolla tritata, una costarella di sedano, una piccola radica gialla, 200 g di carne tritata, regaglie di pollo tagliate a pezzetti, sale e pepe.
Appena il soffritto s'indora, si versa un bicchiere di vino e dopo averlo lasciato tirare un po', si aggiungono i funghi bene scolati. Trascorsa una ventina di minuti si butta giù 1 kg di pomodori passati e si aspetta che il sugo arrivi al punto giusto. Solo allora si può versare 1 kg di riso che abbisogna di venti minuti di cottura e di un cucchiaio di legno che lo giri di continuo. Poiché il riso tende a infittirsi con facilità, è necessario allungarlo, di tanto in tanto, con acqua leggermente salata, messa a bollire in una pentola a parte.
Ottenuto a cottura ultimata un risotto bene amalgamato e denso, vi si gettano sopra due uova, sbattute come si usa per la frittata, 80 g di burro e 150 g di parmigiano grattugiato. Volendo, si possono versare anche alcune manciatelle di pezzettini di mozzarella che non guastano. Una mescolata e poi il risotto è pronto per essere scodellato con una spolverata di altro parmigiano.
Supplì
Se, una volta serviti i commensali, dovesse avanzare ancora un po' di risotto, si avrebbe l'occasione buona per preparare i supplì, una leccornia che a Roma gode di un apprezzamento tutto speciale.
Si spalma il riso su un tavolo di marmo, oppure su piatti larghi, e lo si lascia raffreddare. Poi se ne prende in mano una cucchiaiata, vi si infila al centro un dadino di mozzarella e si richiude ben bene creando una forma più grande di un uovo, ossia una specie di crocchetta di riso. Il supplì così ottenuto si passa nell'uovo sbattuto, si impana rotolandolo nel pangrattato e infine si mette a friggere in un padellone piuttosto alto e colmo di olio bollente. Ogni supplì, acquistata un'indoratura omogenea e croccante, va mangiato caldo, dopo però essere stato adagiato per pochi momenti sulla carta paglia, se se ne trova in commercio, o sulla carta del pane allo scopo di fare assorbire l'olio sgocciolato dal supplì. Al primo o al secondo morso la mozzarella filerà in modo tale da farci gustare i supplì «al telefono».
In sostanza la ricetta da seguire per i supplì è la stessa del risotto. La variante sta nel preferire il brodo all'acqua calda per allungare il riso durante la cottura che deve essere al dente in maniera assoluta.
I supplì possono essere presentati anche come uno sfizio da antipasto.
Gnocchi e polenta
Gnocchi di patate
Anche se da qualche parte si continua a far passare come «gnocchi alla romana» quelli di semolino, noi siamo d'accordo con Livio Jannattoni quando scrive: «da che mondo e mondo gli gnocchi vengono fuori dalle patate lessate, pelate, schiacciate e impastate poi con la farina».
Non vogliamo togliere nulla agli gnocchi di semolino, ma ci sembra doveroso e giusto dare a Cesare quello che è di Cesare.
Pertanto, dovendo parlare di cucina romana, diamo un posto privilegiato agli gnocchi di patate che, secondo noi, sono più romani di quelli di semolino. E poi... è questione anche di gusti.
Le patate vanno cotte, sbucciate, schiacciate con lo «sfragnipatate» e lasciate raffreddare un po'.
Subito dopo si impastano con tanta farina quanta ne necessita perché sia bene assorbita.
Ottenuto un impasto compatto e morbido, lo si riduce a bastoncini lunghi che devono essere tagliati in tanti quadratini.
Ognuno di questi inoltre va pressato con un dito per creare una fossetta piccola ma sufficiente per accogliere il sugo.
Nel frattempo si fa bollire l'acqua leggermente salata in una pentola piuttosto capace dove vanno buttati giù gli gnocchi un po' alla volta, per poi toglierli poi nel momento in cui tornano a galla.
Quindi una zuppiera li ospiterà bene sgocciolati perché siano conditi, strato dopo strato, col sugo preferito: o a base di carne con pomodoro e parmigiano, oppure a base di guanciale con pomodoro e pecorino.
Due tipi di sugo che ritroveremo in seno alla pastasciutta.
Gnocchi di semolino
Per dovere di completezza, comunque, riportiamo anche la ricetta degli gnocchi di semolino, riprendendola da Jannattoni:
Ingredienti:
250 g di semolino
50 g di burro
un litro di latte
2 o 3 tuorli d'uovo
poco più di un etto di parmigiano grattato
50 g di burro fuso
sale
Si versa in una casseruola il latte, portando ad ebollizione. A quel punto vi si farà scendere a pioggia, gradatamente, il semolino. Avendo l'accortezza di mescolare di continuo, per evitare la formazione di grumi, e staccando di continuo il composto latte-semolino dal fondo e dalle pareti del recipiente.
Si toglie allora la casseruola dal fuoco, e si condisce il contenuto con il parmigiano, il burro, i tuorli d'uovo (stemperati in un po' del latte rimasto), un pizzico di sale. Si mescola, si fa amalgamare, e si rovescia il semolino così condito su una tavola di marmo, inumidita in precedenza, o su un piatto largo, bagnato leggermente anch'esso. Con la parte piatta della lama di un grosso coltello, ripetutamente bagnata, si stende il semolino, fino a portarlo allo spessore uniforme di circa un cm.
Si lascia raffreddare per una o due ore, e una volta bene rappreso il composto, si taglia a quadrettini, o a rombi («a piccoli mostaccioli», scriveva Giaquinto), di 3-4 cm di lato.
Ma oggi questi gnocchi si riducono pure a tondini. Si spalma poi di burro una teglia, o una pirofila, e vi si dispongono a strati i quadratini, o rombi, o «mostaccioli». Circa tre o quattro strati, che un tempo si facevano appena arretrare mano mano che salivano, per far nascere «scalini» e dare al tutto una certa configurazione leggermente piramidale. Ad ogni strato, una passata di parmigiano grattugiato, poi, una volta terminata la collocazione dei pezzi, un'altra spolverata ancora di formaggio, prima di lasciar scendere su tutto l'insieme il burro fuso. Da versare lentamente, in modo di farlo penetrare bene anche negli strati bassi. Si passa al forno ben caldo e si ritira il recipiente dopo circa un quarto d'ora di cottura, con gli gnocchi che hanno assunto una bella superfìcie dorata. Vanno serviti caldissimi.
Polenta con le spuntature di maiale
Per sei persone occorrono 400-500 g di farina gialla di polenta che va versata lentamente a pioggia nell'acqua salata al punto giusto e portata a ebollizione in una pentola necessariamente grande.
Mentre con una mano si lascia cadere adagio adagio la farina, con l'altra, munita di una grossa cucchiaia di legno, si gira nel recipiente con movimenti sempre uguali e regolari, affinché non si creino grumi e si ottenga un composto omogeneo.
Qualora la farina tendesse a farsi soda, è bene aggiungere un poco d'acqua bollente.
Dopo circa quaranta minuti la pentola va tolta dal fuoco e lasciata al caldo.
Intanto in un tegame a parte si versa un po' d'olio d'oliva, aggiungendovi 100 g di guanciale o di grasso di prosciutto a pezzetti, una cipolla, una costa di sedano e una radica gialla: tutto tagliato molto sottile. In questo soffritto si fanno rosolare le spuntature di maiale (1 kg) in compagnia, volendo, di alcune cotichelle di prosciutto sbollentate e bene raschiate.
Subito dopo si versa sale, pepe e mezzo bicchiere di vino bianco secco.
Si aspetta che quest'ultimo evapori e poi si aggiunge 1 kg di pomodori pelati con un po' d'acqua sufficiente a coprire la carne.
A metà cottura, anche se non previsto dalla ricetta, a molti buongustai romani piace inserire qualche salsiccia per ottenere un sugo... coi fiocchi, ancor più romano.
La polenta, versata nei piatti o sulla «spianatora», va cosparsa di tutta quella grazia di Dio e sottoposta a una pioggia abbondantissima di parmigiano (o pecorino) grattugiato.
La pastasciutta
E' la risorsa più efficace e più pratica, oltre che economica, per risolvere i problemi del pranzo e della cena, soprattutto in seno a quelle famiglie che non hanno tanto da scialare per riempire lo stomaco. Ma la pastasciutta è anche il cibo più gradito, più festoso, più appetitoso cui nessuno è capace di rinunciare, specialmente a Roma, dove nella maggioranza siamo a tutti gli effetti «pastasciuttari» con orgoglio, anzi con vanto, perché un'insalatiera di spaghetti raggomitolati in un sugo anche di poche pretese, ha una forza tale di attrazione che intorno a lei tutte le amarezze, le antipatie, le discussioni, la sopraffazione, i litigi d'ogni razza e d'ogni volume, le cattiverie si dissolvono in una nube nata da una miscela di profumi stregati e voluttuosi.
Secondo Trilussa, perfino le diatribe politiche si spengono o si assopiscono all'appello di un piatto di spaghetti stracarichi di sapore e capaci di riportare l'armonia del buon accordo: «Ner modo de pensà c'è un gran divario: / mi padre è democratico cristiano, / e, siccome è impiegato ar Vaticano, / tutte le sere recita er rosario; / de tre fratelli, Giggi ch'è er più anziano, / è socialista rivoluzzionario; / io invece so' monarchico, ar contrario / de Ludovico ch'è repubbricano. / Prima de cena liticamo spesso / pe via de sti principi benedetti: / chi vò qua, chi vò là... pare un congresso! / Famo l'ira de Dio! Ma appena mamma / ce dice che so' cotti li spaghetti / semo tutti d'accordo ner programma».
Un piatto di fettuccine fatte in casa, con olio di gomito, ossia a mano, sguazzanti in un intingolo profumato rosso vivo, adesca il buongustaio per un peccato di gola fregandosene dei valori del colesterolo e dei capricci epatici. Farina di grano duro, uova (uno per commensale), sale, un tantino di acqua e poi... una gran forza di braccia: ecco l'impasto delle fettuccine, destinate a trionfare sulle nostre mense da tempo immemorabile, anche da quando le uova non erano ancora entrate tra gli ingredienti. Acqua e farina e a Roma e qua e là nel Lazio nascevano, e speriamo che non si arrestino, le «lacne», le «fregnacce», i «maccaruni», le «sagne», i «cecapreti», gli «strozzapreti», i «pici», le «cellette».
Le fettuccine, quelle autenticamente casarecce, capolavoro dell'arte culinaria romana, sono le tante striscioline in cui viene ridotta la «sfoglia», stesa con lo «stennarello» sulla «spianatora» di legno.
Si raccomanda a questo punto che le fettuccine, abbastanza «dure» e non troppo lunghe, vadano tagliate a mano e non con l'aiuto di macchinette che assolvono il proprio ruolo in maniera monotona e, scrive Jannattoni, «comprimono l'impasto, privando noi, e il nostro palato, di quel "soffice", tutto proprio delle fettuccine, che soltanto un taglio a mano può conservare.».
Tra le tante varietà di salse per condire un buon piatto di fettuccine ne scegliamo uno di particolare gusto e molto invitante; quello delle fettuccine alla romana con regaglie di pollo.
Fettuccine alla romana con regaglie di pollo
Ingredienti per sei persone: 9 hg di fettuccine, 3 hg di carne di manzo macinata, olio vergine d'oliva, sedano, carota, appena mezzo bicchiere di vino rosso, due foglie di alloro, 1 kg di pomodori pelati, due regaglie di pollo tagliate a dadini molto piccoli, sale, pepe, parmigiano grattugiato.
La preparazione è molto semplice. In una casseruola si fa indorare nell'olio la cipolla in compagnia del sedano e della carota, poi si aggiunge la carne macinata lasciando cuocere il tutto per una ventina di minuti circa. A rosolatura avvenuta si versa il vino unitamente a due foglie di alloro e si aspetta l'evaporazione. Quindi si fanno entrare in azione i pomodori pelati insieme alle regaglie, precedentemente ridotte a pezzettini, accuratamente pulite, lessate leggermente a parte e scolate con molto scrupolo. La cottura deve andare avanti per almeno un'ora con un po' di sale e una spolverata di pepe, sufficiente per dare soltanto un po' di profumo al delicato sapore del sugo, che le fettuccine, cotte al punto giusto e ben scolate, attendono per un bagno purpureo sotto un'abbondantissima pioggia di parmigiano grattugiato.
Una variante riguardo al sugo ce la offre Ada Boni: «Si prepara un buon sugo d'umido e a parte si prepara anche un abbondante ragù di pollo, composto di fegatini, grecili, ovette, creste, ai quali si può aggiungere un pugno di funghi secchi. Insaporire poi il ragù con strutto (o olio) e cipolla trita, sale e pepe, bagnandolo qualche minuto dopo con un pochino di brodo o di acqua. Quando il ragù è pronto lo si finisce d'insaporire con alcune cucchiaiate del sugo d'umido preparato.
Le fettuccine, cotte a dovere, si condiscono con burro, sugo e parmigiano completando successivamente col ragù. Dopo aver condito le fettuccine e prima di aggiungere il ragù si possono
mettere in una casseruola con qualche altra cucchiaiata di sugo e lasciarle insaporire per pochissimi minuti sull'angolo del fornello, mescolandole con precauzione. In tal modo il condimento viene meglio ricevuto dalla pasta che risulta più saporita. Si versa poi nel piatto, si mette il ragù, si mette anche qua e là qualche altro pezzetto di burro e si completa con una spolverata di parmigiano. Le fettuccine preparate in quest'ultimo modo si chiamano "ripassate in casseruola"».
L'Amatriciana o la matriciana
Indubbiamente questo non è un piatto nato a Roma, ma importato da Amatrice, piccolo centro dell'interno del Lazio. Tuttavia ha trovato così grande ospitalità all'ombra dei sette colli e oltre Tevere, che il suo profumo ormai è di casa e il buongustaio lo preferisce impossessandosi della sua ricetta e dandogli lo scettro della sovranità sulla tavola romana, dopo avere spinto il dialetto a fare la sua parte con la decapitazione della lettera «a» iniziale: «la matriciana». In genere la pasta che si usa per questo primo piatto è quella degli spaghetti, ma attualmente la preferenza cade sui bucatini, un taglio di pasta più adatto alla circostanza forse per quella certa dose di allegria che si sprigiona a punta di forchetta dal risucchio delle labbra a favore dell'entrata trionfale nella bocca. Allora un involontario concerto di piccoli fischi rompe di tanto in tanto il silenzio dovuto all'impegno delle mandibole in azione e lo sgocciolamento del sugo si fa sempre più dispettoso a destra e a manca rifiutandosi di portar rispetto al candore dei colletti delle camicie nonostante lo sbarramento della salvietta.
Per la preparazione del condimento della «matriciana» esistono due versioni. La prima indica per sei commensali i seguenti ingredienti: 600 g di spaghetti (o bucatini), 150 g di guanciale molto magro tagliato a pezzi piuttosto grossi, due cucchiaiate scarse di olio d'oliva, 1/4 di cipolla tritata fina, la polpa di qualche pomodoro molto asciutta a piccoli pezzi, un pezzo di peperoncino, 100 g di pecorino. Del procedimento ce ne parla Luigi Carnacina: «Messi in un tegame i pezzi di guanciale e l'olio si lasciano rosolare a calore vivo; poi si sgocciolano e si tengono al caldo. Nel fondo di cottura si getta la cipolla e il peperoncino; al primo accenno di imbiondimento della cipolla si aggiunge il pomodoro e si mescola il tutto con un po' di sale. Per ottenere la salsa occorrono otto-dieci minuti di cottura e subito dopo si unisce il guanciale croccante. Mentre il pomodoro cuoce, si getta la pasta in abbondante acqua bollente leggermente salata, la si sgocciola al dente e la si mette in un'insalatiera capiente per condirla con la salsa e col pecorino grattugiato. Gli spaghetti alla matriciana devono essere preparati con una salsa appena colorata di pomodoro e non con una salsa al pomodoro come spesso avviene»: parola di Carnacina.
Ma l'argomento non si esaurisce qui. Livio Jannattoni scrive: «L'operazione si svolge in contemporanea con la cottura della pasta (in acqua salata): circa quindici minuti. In una padella di ferro si mette un po' d'olio con la pancetta (in sostituzione del guanciale, spesso introvabile), tagliata a dadini. Niente sale e niente pepe. Si fa rosolare per circa cinque minuti. Si aggiunge un peperoncino, vi si getta sopra un po' di pomodoro. Così la pancetta man mano "riacquista". Si effettua inoltre una prima spruzzata di pecorino. A questo punto si scola bene la pasta, al dente, e si versa nella padella del sugo. Si "ripassa" per due o tre minuti, e si aggiunge una seconda spruzzata di pecorino. Quando si avverte il giusto amalgama tra condimento e pasta, allora si "impiatta" e si aggiunge pecorino per la terza volta».
Mettendo a confronto la ricetta di Carnacina e quella di Jannattoni si evidenzia la diversa maniera di comportarsi con i pezzetti di guanciale, o pancetta, arbitri della situazione. Jannattoni consiglia: «Tirarli fuori dalla padella dopo appena avergli fatto sentire il fuoco, e tenerli da parte, al caldo nell'attesa di farceli rientrare». E questo lo consiglia anche Carnacina. «Oppure», prosegue Jannattoni, «far seguire ad essi la sorte comune del classico condimento, restando sempre in quel medesimo recipiente anche quando arriva il pomodoro. Ed è questo secondo caso che si segue ormai più comunemente».
Spaghetti all'aglio, olio e peperoncino
Si fanno rosolare in abbondante olio extra vergine d'oliva tre spicchi d'aglio con un peperoncino spezzettato. Subito dopo si toglie la padella dal fuoco e si pensa a far cuocere 600 g di spaghetti (per sei persone) al dente, a scolarli e a versarli nella padella, per ripassarli un minuto sul fuoco. Una spolverata di prezzemolo ben tritato e la leccornia è pronta per essere servita.
Se piace aggiungere, dopo aver fatto rosolare l'aglio, anche del pomodoro a pezzetti, e sostituire gli spaghetti con le penne, si ottiene un altro tipo di primo piatto molto sbrigativo e altrettanto gustoso: le «penne all'arrabbiata» (dipende dalla quantità di peperoncino).
Spaghetti a cacio e pepe
Per sei persone occorrono 600 g di spaghetti, 100 g di pecorino grattugiato, sale e pepe.
È un piatto dalla semplicità assoluta che richiede però attenzione nel dosaggio dei pochi ingredienti e nella preparazione. Cotti al dente in abbondante acqua salata, gli spaghetti vanno scolati e mescolati nel pecorino e nel pepe dosati anch'essi abbondantemente.
In questi spaghetti non è permessa la presenza di nessun genere di grassi; per ottenerli sciolti è sufficiente non scolarli del tutto per lasciarli leggermente brodosi.
Tuttavia se gli spaghetti tendono ad ammassarsi, si può aggiungere qualche cucchiaiata d'acqua bollente.
L'intromissione di altri ingredienti, come l'olio d'oliva crudo, è del tutto arbitraria, per cui non si avrebbero più gli spaghetti «a cacio e pepe», tanto apprezzati e amati da Aldo Fabrizi.
Spaghetti alla carbonara
Si tratta di un piatto che, accolto con onore dalla cucina romana, della quale ormai fa parte fin dai tempi dell'immediato dopoguerra, può essere ritenuto, se non proprio romano al cento per cento, almeno "quasi romano". È insomma un primo piatto capace di soddisfare qualsiasi palato dei più intransigenti e di farsi apprezzare come un prediletto delle mense romane, dalle più semplici alle più esigenti.
Ingredienti per 6 persone: 700 grammi di spaghetti (o di rigatoni), 150 grammi di guanciale (o pancetta) tagliato a piccoli listelli, 2 cucchiai di olio, 100-150 grammi di pecorino (o parmigiano) grattugiato, 6 uova intere.
Mentre si fa lessare la pasta in abbondante acqua salata, si battono in una zuppiera le uova mescolandole al sale, al pepe e al formaggio, evitando di creare dei possibili grumi. In un tegame poi si versa l'olio per farvi rosolare il guanciale che, appena raggiunta una certa morbidezza, segna il momento giusto per togliere dal fuoco il tegame, dove va versata la pasta cotta al dente perché si amalgami ben bene nel condimento. Fatto questo, si vuota il tutto nella zuppiera contenente uova e formaggio.
Si raccomanda di mescolare con cura e di servire celermente. È qui il segreto della buona riuscita della ricetta: essere tempestivi perché pasta e condimento leghino in modo da evitare che si rapprendano.
Linguine al tonno
Ecco un altro primo piatto invitante e straordinariamente gustoso. Nella padella in un mezzo bicchiere di olio d'oliva si fa indorare uno spicchio d'aglio che poi deve essere eliminato. Si prendono quindi tre alici salate e si versano a pezzetti nella padella facendole seguire da 700-800 g di pomodori pelati e privati dei semi e da un po' di prezzemolo. Per dieci-quindici minuti si lascia insaporire l'intero condimento e poi si aggiungono 100 g di tonno sott'olio che va subito spezzettato. Lasciato cadere un pochino di sale in compagnia di un po' di pepe, secondo i gusti, si fa cuocere la salsa ancora per qualche minuto.
Le linguine appena lessate vanno condite subito con la salsa stessa, aggiungendo il prezzemolo crudo. Per sei commensali bastano 600 g di linguine o di bavette o di lingue di passero.
Il sugo di umido
Con quanta nostalgia ci ritornano alla memoria le domeniche della nostra giovinezza, quando di «matina abbonora» ci svegliavamo ai colpi di «scure» sulle battilonate e al canto gioioso delle campane invitanti alla messa. Le massaie però prima dei propri doveri religiosi espletavano quello della preparazione del sugo d'umido che richiedeva pazienza, tempo e molta cura. Ma andiamo per ordine. Il primo momento solenne, diremmo quasi «sacerdotale», era quello del «pilottare» un tocco di carne del taglio del girello o del piccione. Tale operazione è rimasta la stessa attraverso gli anni e richiede una decina (poco più, poco meno) di cubetti di lardo, o di prosciutto grasso e magro, che vanno stropicciati per bene sulla battilonta in un trito di foglie di maggiorana (detta a Roma «persa»), di un pezzetto di aglio, di un pizzico di sale e di un po' di pepe. Con un coltello a punta si incide la carne in più parti per introdurvi i pezzetti di lardo. Allo scopo di mantenere la carne bene in forma, la si lega con lo spago a mo' di salame e la si mette in un tegame dove si fa squagliare nello strutto o nell'olio d'oliva, un po' di lardo, un po' di grasso di prosciutto, un pezzetto d'aglio e un ciuffetto di prezzemolo. Poi si aggiungono ben tritati una cipolla, una carota, una o due costole di sedano, un po' di prezzemolo, sale, pepe e un paio di chiodini di garofano. La rosolatura del tutto deve avvenire molto lentamente e in caso di bruciacchiature si può aggiungere qualche cucchiaiata d'acqua. Appena il pesto è diventato una poltiglia e la carne si è ben rosolata, si versa mezzo bicchiere di vino rosso asciutto che si lascia evaporare. Subito dopo si aggiunge il pomodoro passato e si mescola versando tanta acqua quanta ne necessita per ricoprire la carne. Il tegame va quindi chiuso con un coperchio e a fuoco molto moderato si fa in modo che la carne arrivi alla cottura contemporaneamente all'infittirsi del sugo. Altrettanto lentamente il profumo comincia ad aleggiare come un alito di festa che imbandiera il cuore.
Il risotto e ogni tipo di pasta di grosso taglio, con a capo le fettuccine casarecce, trovano nel sugo d'umido, detto anche «garofolato», l'ideale dei condimenti.
«Trasteverini giocando alla Ruzzica», particolare di un'incisione di Bartolomeo Pinelli, 1809
Rigatoni con la pajata
Siamo giunti alla ghiottoneria più famosa della cucina romana, in cui la responsabilità è tutta della pajata, ossia di quella parte di intestino del bue contenente una sostanza chimosa, indicata a Roma, impropriamente, con la parola «latte». La parte dell'intestino che ci dà la pajata deve essere ben conosciuta e garantita, altrimenti la pajata stessa ha sapore amaro e viene detta «strisciata».
La prima fase della preparazione consiste nello spellare la pajata con molta cura, ossia nel privarla di quel velo sottilissimo che la contiene. L'operazione è molto facile e indispensabile a favore della masticazione che in caso contrario si renderebbe insopportabile. Per sei persone occorre 1 kg e 1/2 di pajata che una volta pulita, va tagliata con attenzione, affinché non esca il chimo, ottenendo così dei pezzi della lunghezza di circa venticinque centimetri. Si uniscono le estremità e si legano con una passata di refe bianco, in modo da ottenere delle vere e proprie ciambelle. Fatto questo, si prende un tegame, ci si mette una cucchiaiata di strutto o di olio d'oliva, una cipolla a fettine sottili, un po' di sedano tagliuzzato, un po' di lardo o di guanciale, uno spicchio d'aglio e un ciuffo di prezzemolo. Si lascia soffriggere il tutto e poi si aggiunge la pajata che si fa rosolare e insaporire con sale e pepe. Si versa subito dopo un bicchiere di vino e si aspetta la sua evaporazione per aggiungere quattro cucchiaiate di buona salsa di pomodoro. Una «mucinata», un altro bagno d'acqua piuttosto abbondante e si lascia bollire fino a cottura completa, ossia per circa un paio d'ore. Il sugo dovrà diventare denso e stracarico di sapore.
Intanto per sei commensali si lessano all'incirca 600 g di rigatoni, il taglio di pasta ideale adattissimo per il connubio con la pajata che va messa da una parte in un'altra casseruola unendoci un po' di sugo. Quello che resta nel tegame va versato in un'insalatiera per condirvi i rigatoni appena cotti al dente. Si mescola per bene con abbondante parmigiano grattugiato e sul tutto si dispongono le ciambelle di pajata: il peccato di gola è pronto, non rimane che consumarlo.
Rigatoni al sugo di coda
Il primo passo che si deve fare nei confronti della coda di manzo è quello di metterla sotto l'acqua corrente per diverso tempo, asciugandola subito dopo rocchio per rocchio. Intanto in un tegame si prepara un soffritto con olio, 100 g di pancetta, un tritato di carote, cipolla, aglio, prezzemolo e due foglie di alloro.
Quindi si unisce al tutto la coda, si aggiunge sale e pepe e si lascia rosolare a fuoco moderato. Successivamente si versa un bicchiere di vino bianco secco che deve evaporare lentamente. Poi è la volta dei pomodori passati nella quantità di 700-800 g e si avvia così la cottura. Passato poi qualche minuto, allo scopo di facilitarla, si aggiunge del brodo di carne.
Quando la carne sta per staccarsi dall'osso, si completa l'opera aggiungendo 300 g di sedano, mondato per bene, privato dei fili e di quanto lo riveste all'esterno. Si porta avanti la cottura per un altro quarto d'ora, arrivando così ad un tempo complessivo di circa tre ore.
Dopo di che si preparano, per sei commensali, 500-600 g di rigatoni per lessarli in acqua salata. Il nostro gusto ci fa preferire i maccaroncini, che però richiedono tovaglioli-lenzuola per la difesa delle camicie e delle cravatte.
La pasta appena cotta va unita al sugo versato in un'insalatiera e subito sottoposta ad una pioggia di parmigiano e di pecorino grattugiati, metà e metà.
Invece che nell'insalatiera la pasta potrebbe essere condita anche nello stesso tegame e mantecata in tutta quella grazia di Dio che esso contiene.
Si raccomanda di fare arrivare nel piatto di ogni commensale almeno un rocchio di coda tenero e succulento.
Maccheroni con la ricotta
È doveroso a questo punto andare un po' sul leggero e allora ci permettiamo di consigliare un piatto che piace moltissimo anche ai bambini.
Per sei commensali si lessano 600-700 g di pasta in acqua bollente salata.
Durante la cottura si mettono in una terrina 300 g di ricotta, un paio di cucchiaiate di zucchero e un cucchiaio di cannella in polvere e si lascia stemperare il tutto versando qualche cucchiaiata di latte tiepido o di acqua calda. Vi si passano poi i maccheroni e si mescola velocemente, per servire subito.

Brodetto pasquale
Per concludere, abbiamo deciso di dare la parola a un brodino, anzi a un brodetto che costituiva il punto di partenza dei pranzi di Pasqua, una Pasqua d'altri tempi e d'altra atmosfera.
Per la ricetta seguiamo le indicazioni e i suggerimenti di Ada Boni.
Per sei persone si prepara un brodo con 500 g di carne di manzo. Dopo circa un'ora e mezzo si aggiungono nella pentola 500 g di petto o di spalla di agnello.
Quando il brodo è pronto, si sbattono in una terrina almeno sei tuorli di uovo, si diluiscono con del succo di limone e si sbattono. Poi, prima che la zuppa arrivi sulla tavola, si mettono le uova sbattute in una casseruola capiente, vi si versa lentamente del brodo caldo e si mescola continuamente con un cucchiaio di legno.
Versata nella casseruola la quantità necessaria di brodo, si porta il recipiente all'angolo del fornello, sempre mescolando, in modo che il brodo si faccia leggermente denso. Il calore non deve essere eccessivo e il liquido non deve mai bollire.
Da ultimo si aggiunge un pochino di maggiorana fresca e un pizzico di pepe bianco.
Quindi si fanno abbrustolire alcune fettine di pane sottili e se ne mettono tre o quattro per scodella, dove si versa il brodetto, lasciandovi cadere sopra una pioggia di parmigiano grattugiato.
Chiudendo in poesia, diciamo pure che il brodetto
è un brodo un pò santo,
è un brodo speciale
de Pasqua sortanto:
pe questo è pasquale;
infatti er sapore
dà pace e conforto
e solo l'odore
risuscita un morto.
Secondi piatti
I romani, già ghiottissimi di minestra e pastasciutta, lo sono altrettanto dei secondi piatti, a condizione però che anch'essi rientrino nella semplicità di una cucina tanto modesta quanto accattivante, con tutte le carte in regola richieste da un lavoro eseguito con pazienza e scrupolosità.
La gamma delle pietanze è di una vastità incredibile, per cui dobbiamo limitarci a presentare quelle più caratteristiche e prettamente romane, così come la tradizione ce le ha tramandate nella piena genuinità e con quel fascino che alletta non solo i romani di nascita, ma anche quelli di adozione e di passaggio.
«Il Friggitore», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1815
I fritti
Cominciamo il nostro «excursus» dai fritti per i quali l'olio è l'elemento essenziale tenuto in alta considerazione dalla cucina romana da sempre e, in special modo, da quando lo strutto ha perduto quota con l'evoluzione dei tempi.
Fritto alla romana
Richiede, secondo la tradizione, una certa varietà e altrettanta ricchezza d'ingredienti per presentare un insieme di cose fini. Quindi cervelli, animelle, schienali, carciofi, fettine di fegato di vitella, granelli, costolette d'abbacchio, polpette di carne, pandorato, filetti di zucchine, fiori di zucchine ripieni, patate, mele, ricotta, cavolfiori sono tutto un ben di Dio che va trattato nel rispetto delle norme e con una preparazione a base di uovo sbattuto o pastella, secondo i casi.
L'uovo sbattuto già sappiamo che cos'è; in quanto alla pastella dobbiamo attenerci ad una certa preparazione.
La pastella
Si mette in una terrina, dipendentemente dalla quantità di pastella che si desidera, qualche cucchiaiata di farina che va stemperata con una forchetta dopo aver aggiunto acqua fredda a sufficienza: si deve ottenere un composto non troppo denso e omogeneo.
Si raccomanda di lavorare l'impasto in maniera giusta per evitare che diventi elastico.
Lasciatolo riposare per un poco, si aggiunge un pizzico di sale, un po' d'olio d'oliva e, al momento di friggere, anche una o due chiare d'uovo montate con cura. L'olio e le chiare montate aiutano la pastella a mantenersi leggera.
Cervelli
Di solito si usano i cervelli d'abbacchio o quelli di vitella. Dopo averli lasciati a bagno per circa venti minuti in acqua fredda cambiata almeno due volte, si toglie la parte sanguigna, così i cervelli sono pronti per essere ammollati in una casseruola fino a che l'acqua, contenente un po' di prezzemolo, non comincia a bollire. Allora si estraggono e si versano in un'altra casseruola contenente acqua fredda.
Da qui si passano su un panno di cucina, si puliscono ancora di qualche eventuale pelletta e poi si tagliano a pezzi di media grandezza. A questo punto vanno adagiati in una scodella dove si lasciano riposare per un po' di tempo dopo averli conditi con olio, limone e prezzemolo tritato. Appena pronti, si passano nella farina, poi nell'uovo sbattuto e finalmente nella padella dove l'olio ha raggiunto un calore medio. Il colore biondo che ogni pezzo di cervello acquista è la spia per dirci che il fritto è pronto.
Schienali
Fanno parte del midollo spinale dei bovini. Dopo averli liberati della pelle, vanno immersi nell'acqua fredda contenuta in una casseruola e portati fino all'ebollizione. Successivamente vanno immersi in altra acqua fredda e poi tagliati a pezzi di circa cinque centimetri. Infarinati, vanno immersi nell'uovo sbattuto e quindi fritti nell'olio bollente della padella.
Animelle
Sono il timo e le ghiandole endocrine dell'abbacchio e del vitello e in culinaria costituiscono un piatto delicato e straordinariamente appetitoso.
Per un fritto alla romana sono maggiormente indicate le animelle d'abbacchio che in un primo momento vanno trattate come i cervelli. Tenute poi un po' di tempo a mollo nell'acqua fredda perché sparisca ogni traccia di sangue, successivamente vanno portate a ebollizione in una casseruola piena d'acqua. Poi si raffreddano, si asciugano, si puliscono di qualche residuo di pelle e si tagliano a pezzi; infarinati e bagnati nell'uovo sbattuto, si lasciano cadere nell'olio bollente della padella fino al raggiungimento di una delicata indoratura.
Pandorato
Riteniamo simpatico e di buon effetto cedere per questo fritto la parola ad Aldo Fabrizi che delicatamente e argutamente ci rimette una ricetta concisamente precisa:
Le fette de pagnotte un pò rifatte
vanno tajate intere, no a sfojetta
com'er pane che chiameno a cassetta.
Quelle nun ponno mai rimane intatte.
E mo ve spiego come vanno fatte:
s'hanno da mette in una terinetta
a mollo a no sbattuto d'ova e latte
e ce se fanno stà na mezzoretta.
Quanno ch'er Pane è bene imbeverato,
s'indora fritto all'ojo o a tutto buro
p'avé dritto ar nome "Pandorato ".
Certo chi soffre de colesterina
e nun se vò aggravà, rinunci puro,
e vadi a letto co la minestrina.
Carciofi fritti
Ci vogliono i carciofi romaneschi. Allora sì che la squisitezza raggiunge i più alti gradi della scala del buon gusto e davanti a una leccornia di questo genere anche il fegato rinuncia a crearci fastidi, perché tutto sommato i suoi rapporti col carciofo in genere non sono affatto deludenti. Quindi mettiamoci all'opera pulendo i carciofi destinati alla nostra mensa con una cura ben precisa, affinché siano eliminate tutte le foglioline dure e il rivestimento del torsolo. Portata così allo scoperto tutta la parte tenera, ogni carciofo va tagliato in otto spicchi da versare in un'insalatiera piena d'acqua e sugo di limone. Quando è il momento tutti gli spicchi vanno bene asciugati, infarinati, passati nell'uovo sbattuto e finalmente messi a friggere nell'olio bollente della padella. La cottura va fatta a fuoco moderato in modo che i carciofi acquistino una bella doratura straordinariamente voluttuosa.
Filetti di zucchine
Si tagliano le zucchine, private delle estremità, in tante striscioline da lasciare in una scodella, dopo averle spruzzate di sale, per circa un'ora. Quindi se ne prendono un po' alla volta, si premono per liberarle dell'acqua, si infarinano, si passano nell'uovo sbattuto e finalmente si friggono nell'olio bollente della padella. Vanno tolte e scolate appena risultano bionde e croccanti.
Rane fritte
Anche gli anfibi di questo genere rientrano nella tradizione romana. Innanzi tutto le rane vanno ben pulite, ben spellate e ben lavate. Poi, asciugate con cura, si passano nella farina, nell'uovo sbattuto e quindi si friggono nell'olio bollente. Si girano per cinque minuti circa e si passano poi in un piatto decorandole con spicchi di limone. Si versa sopra un po' di sale senza esagerare e si servono calde.
I pezzetti
Imperavano una volta in tutte le friggitorie di Roma e risolvevano spesso una merenda o addirittura una cena. Attualmente è probabile che se ne trovino ancora, ma in misura molto ridotta. I pezzetti, dice Ada Boni, sono stati detronizzati. In sostanza si tratta di una frittura con la pastella composta in maggior parte di piccoli pezzi di broccoli, cavolfiori, patate, zucca gialla, striscette di baccalà... venduti, un tempo che fu, a cinque pezzi per un soldo. Si pensi che un soldo valeva cinque centesimi e ne abbisognavano venti per fare una lira.
«Il friggitore, maestosamente dall'alto del suo... trono, dinanzi al quale si allineavano le monumentali scola-frittura stagnate, prendeva un foglio di carta, spesso scritta!, la metteva sulla mano sinistra, ci faceva una specie di conca, nella quale deponeva, prendendoli, naturalmente con le mani, i pezzetti. Prendeva poi un utensile bucherellato, contenente del sale, ne faceva un largo gesto cadere un po' a pioggia sui pezzetti, riuniva i quattro angoli della carta e... consegnava il tutto al cliente». I pezzetti: una caratteristica gastronomica della vecchia Roma, che faceva approdare nelle friggitorie studenti in comitiva, giovani eleganti, persone di ogni ceto e condizione che si beavano dell'allegria e del buonumore di una serata fatta di «pezzetti», annaffiandoli spesso col nettare di Bacco sotto un castagno dei Castelli.
Cavolfiori con la pastella
È un piatto che nei giorni di magro si accompagna molto bene ai filetti di baccalà, di cui parleremo più avanti. Il cavolfiore va prima lessato, poi tagliato nelle varie cimette che, passate nella pastella, sono pronte per essere fritte nell'olio bollente e diventare indorate e croccanti.
Mele con la pastella
Sono una leccornia che fa diventare ghiotti specialmente i bambini.
Sbucciate, strofinate con succo di limone, private del torsolo e tagliate a fettine, le mele vanno passate nella pastella e poi fritte nell'olio bollente. Ada Boni consiglia pure, allo scopo di ottenere un fritto più saporito, di mettere le fettine di mela appena tagliate in una scodella coprendole con un paio di cucchiai di zucchero e un pochino di brandy. In quanto al tipo di mela, si preferiscono le renette, le annurche, le cerine.

Il pesce
La cucina romana in quanto a piatti a base di pesce è piuttosto carente, ma quei pochi che offre sono davvero gustosi e capaci di soddisfare i buongustai più esigenti.
Ciriole con i piselli
A Roma le ciriole erano le piccole anguille rintracciabili nelle acque del Tevere e ora rimaste soltanto un nostalgico ricordo. Tuttavia al loro posto possono essere introdotte nelle nostre cucine anche le anguille del lago di Bolsena e l'«inguille de Comacchio», come le indica il Belli.
La ricetta è di vecchia data, ma sempre valida per una ghiottoneria molto apprezzata dai romani che ci hanno preceduto.
Ogni anguilla va decapitata, pulita con cura nella parte interna, tagliata a pezzi di circa cinque centimetri, lavata ripetutamente e asciugata con una salvietta.
Un kg di ciriole richiede, prima di finire nel tegame, un pochino di olio, mezzo spicchio d'aglio tritato e quattro o cinque cipolline novelle, anch'esse tritate.
Quando il tutto raggiunge una certa indoratura, si mettono giù le ciriole per farle insaporire con sale e pepe. Appena il condimento si è bene asciugato, si versa mezzo bicchiere di vino bianco insieme a una cucchiaiata di pomodoro pelato.
Una buona mescolata e poco tempo dopo si aggiungono i piselli sgranati (1/2 kg).
La cottura va fatta a fuoco moderato, coprendo la casseruola con un coperchio.
Se il bagno dovesse asciugarsi troppo si interviene con l'aggiunta di un po' d'acqua.
Seppie in umido
Ecco un altro piatto prelibato che rallegra la nostra mensa adescandoci con un profumo tutto particolare.
Si tenga presente che le seppie hanno due vescichette: una contenente un liquido nero e l'altra un liquido giallo-scuro.
La prima va eliminata e la seconda va sfruttata per rendere la pietanza più saporita.
Le seppie vanno spellate e ben lavate.
Ritagliate poi a pezzi, comprese le «zampe», vanno di nuovo risciacquate abbondantemente. In una casseruola si fa soffriggere nell'olio mezza cipolla tritata e un pezzo d'aglio schiacciato. Poi si aggiungono i filetti di un paio di alici ridotti a pezzettini e, qualche momento dopo, si versa mezzo bicchiere di vino bianco, che si lascia evaporare. A questo punto entrano in azione i pomodori: un paio di cucchiaiate di salsa o di conserva casalinga sciolta nell'acqua. Passati circa tre minuti si aggiungono le seppie, lasciandole insaporire con sale e pepe per breve tempo.
Quindi si versano un paio di mestoli d'acqua, si abbassa la fiamma del fornello, si copre la casseruola con un coperchio, permettendo alla cottura di effettuarsi molto lentamente. Attenzione: il sugo deve rimanere molto denso.
Barche di pescatori sul Tevere, in un' incisione di Giuseppe Vasi.
Seppie con i carciofi
Per sei persone è sufficiente 1 kg di seppie che vanno preparate come già sappiamo. In un tegame si fa un soffritto con uno o due spicchi di aglio, olio, un po' di prezzemolo e un paio di alici, lavate, spinate e ridotte a pezzettini. Quando Taglio ha raggiunto una certa indoratura, va tolto dal recipiente e subito si versano le seppie con sale e pepe e un bagno di vino bianco. Evaporato il vino, si versa sulle seppie un po' d'acqua e si avvia la cottura molto lentamente. Intanto si preparano cinque o sei carciofi, tagliandoli a spicchi e passandoli poi in acqua fresca acidulata con un po' di succo di limone. Raggiunta la cottura delle seppie si aggiungono i carciofi e si lasciano cuocere, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno.
Baccalà in guazzetto
Si prende un pezzo di baccalà bene ammollato, gli si toglie la pelle, la lisca e ogni tipo di spine e si taglia a pezzi piuttosto grossetti. In una casseruola intanto si fa imbiondire nell'olio una cipolla ridotta a fettine sottili, poi si aggiunge la salsa di pomodoro, un po' d'acqua e si aspetta che il tutto si condensi. A questo punto è la volta dei pezzi di baccalà che vanno allineati nella casseruola per farli insaporire a fuoco moderato. In quanto al sale bisogna regolarsi indipendentemente dalla salatura del baccalà. Invece è necessario un po' di pepe e qualcosa che caratterizzi una pietanza così semplice e appetitosa: un pugno di pinoli e un altro di uvetta sultanina.
Filetti di baccalà
Una delizia? A dir poco! I filetti di baccalà sono qualcosa di grande, di stupendamente gustoso: sono la gloria tutta romana della nostra cucina, sono un autentico peccato di gola certamente non punibile perché la loro semplicità è davvero francescana. Insomma ogni strisciolina di baccalà, immersa nella pastella prima e nell'olio bollente dopo, ha la forza di stregare il palato, pur presentandosi velata di innocenza.
Il felice risultato finale sta tutto nel far friggere bene i filetti intinti in una pastella di acqua e farina, lievitata per qualche ora, e nel seguire la cottura nell'olio di semi bollente, «rimboccato» mano a mano che si consuma.
Insomma si deve ottenere un piatto di filetti ben cotti e croccanti, abbottati di sapore.
Le frittate
Se ne possono fare unendo alle uova sbattute ingredienti di vario genere.
Una delle più semplici è quella con la cipollina fresca o con la cipolla normale, tagliata in ambo i casi a fettine sottilissime.
In una padella di ferro la cipolla si fa imbiondire nell'olio e al momento giusto si versano le uova sbattute e condite con sale e pepe. La frittata si ottiene facendola cuocere sopra e sotto, ossia rivoltandola con molta attenzione e tempestività.
Frittata con i carciofi
È la regina delle frittate romane e per prepararla per sei persone occorrono sei uova e due carciofi cimaroli che vanno puliti come già sappiamo e tagliati a spicchi.
Quindi si fanno cuocere con sale e pepe in una padella contenente olio d'oliva.
Ogni tanto è bene bagnarli con una cucchiaiata d'acqua.
Fatto questo, si aggiungono le uova sbattute unite, volendo, a un ciuffo di prezzemolo tritato.
Perché la frittata si stacchi bene dalla padella, questa va scossa di tanto in tanto.
Uno spicchio a commensale e il gioco è fatto.
Frittata con le zucchine
È del tutto simile alla precedente.
La variante sta nelle zucchine che, lavate ben bene, vanno tagliate a rotelline e insaporite, se si vuole, anche con una o due foglioline di basilico di stagione, tagliate a dovere, e un poco di pomodoro pelato privato dei semi.
Uova in trippa
Si creano delle frittatine di uova (due a persona) sbattute con sale, pepe e prezzemolo tritato. Poi si tagliano a striscioline larghe circa un centimetro che si lasciano bollire piano piano per alcuni minuti sull'angolo del fornello in un sugo di cipolla e pomodoro piuttosto denso. Appena insaporite, le uova in trippa vanno servite con una spolverata di parmigiano grattugiato mescolato a qualche fogliolina di menta romana.
Le carni lesse
Il lesso
Ci piace cominciare con un piatto caduto molto in disuso, ma che un tempo risolveva nella cucina povera il problema del primo e del secondo piatto: il lesso, ossia la carne lessata per il brodo.
Meglio noto però è il «bollito», che diventa un piatto più ricco perché composto di carni varie, compresi anche alcuni salumi come il cotechino.
Mentre il bollito va cotto nell'acqua già bollente, il lesso richiede l'acqua fredda contenente cipolla, carota, sedano, prezzemolo, qualche pomodoro e un po' di sale.
Quando il brodo è pronto, lo si scola per cuocerci una minestra. Il lesso, tagliato a fette, costituisce un secondo piatto che va accompagnato da un contorno di verdura «strascinata» come potrebbe essere ad esempio la cicoria in padella.
Un'altra risoluzione ci permette di ripassare il lesso con la sola cipolla o con la cipolla e il pomodoro. «Arzillo piatto romano, quasi divertente», ci fa osservare L. Jannattoni.
Si fa rosolare nell'olio di oliva una o due cipolle a fettine sottili e poi si aggiungono i pomodori pelati, e a cottura avvenuta si mette il lesso ridotto a fettine e lo si lascia insaporire con sale e pepe.
Appena il condimento si fa un po' asciutto si versa un po' di brodo e una pioggia di prezzemolo tritato.
Secondo i gusti si possono aggiungere anche un po' di maggiorana e di basilico.
Se non piace il pomodoro, si versa quasi a fine cottura un bicchiere di vino bianco o rosso e si lascia stufare il tutto per alcuni minuti. Un tempo le massaie per saziare meglio i loro commensali aggiungevano dopo il pomodoro patate a spicchi, che si facevano seguire dal lesso per ottenere una pietanza uniformemente insaporita e amalgamata.
Le polpette d'un tempo che fu (prosa dell'autore dall'Apollo buongustaio 1986)
Non c'era da sbagliare. Quando l'odore del caffè mi arrivava di buon mattino misto a quello del brodo brontolante sul fornello, spariva ogni dubbio: cominciava quello che «di sette è il più gradito giorno», il sabato.
Lo annunciava proprio quell'odore nato dal connubio di cipolla, sedano, carota, pomodoro e carne, impegnati a realizzare minestra in brodo e polpette.
Ancora mi chiedo perché il solo sabato fosse riservato a tale menù.
Certo, nell'atmosfera patriarcale e un po' conventuale della mia famiglia ogni giorno della settimana aveva un menù fisso; solo qualche particolare ricorrenza imponeva radicali cambiamenti.
Allora sì che era davvero festa. Quindi il sabato la fantasia culinaria era in libera uscita e la realtà legata al brodo e alle polpette, oggi diventate una rarità.
Tracciamo un estratto di nascita delle favolose polpette di carne da brodo.
Il lesso (di solito un bel pezzo di callo di petto di manzo e qualche tocco di taglio diverso) veniva triturato sulla battilonta a colpi precisi e vivacissimi da un coltellone bene affilato.
Trasformato il lesso in un ammasso omogeneo, finiva in un'ampia terrina, dove era atteso da un paio di patate lessate nel brodo e da un panino raffermo, bene ammollato nel latte o nel brodo e strizzato.
La massaia allora lasciava cadere gli altri ingredienti: prezzemolo tritato ben bene, uno spicchio d'aglio rosso ridotto in granellini, un uovo o due, un tocco di burro, tanto parmigiano grattugiato, una manciata di pinoli e un'altra di uvetta sultanina, un pizzico di sale e uno di pepe, qualche goccia di limone.
Quindi entravano in azione le mani per amalgamare bene carne e ingredienti e trasformare il tutto in tante pallette schiacciate: le polpette.
Ognuna veniva poi rivestita d'un velo candido di farina, oppure, secondo i gusti, d'uno strato leggero di pangrattato.
Finalmente, dopo un bagno nell'uovo sbattuto, il tuffo nell'olio bollente del padellone: qui cominciava la danza delle polpette, ciascuna circondata da un tutù di mille bollicine scoppiettanti.
Girate e rigirate a punta di forchetta, si coprivano d'una delicata pellicola dorata, mentre piccole nuvole profumatissime aleggiavano nella cucina e per tutta la casa, come pennacchi d'incenso purificatore, e l'aria era resa sacra e degna dei luculliani sacrifici programmati per la domenica.
Il quinto quarto
Oltre ai quattro quarti del bovino che contengono i vari tagli di carne, dalle fettine al girello, dal piccione alle bistecche di lombo e di costa, dal filetto allo stufatino e così via, esiste un quinto quarto costituito dalle parti che un tempo soddisfacevano una cucina povera, molto povera.
Infatti nel quinto quarto rientrano il fegato, la pajata, la milza, i polmoni, il cuore, il lombatello (posto tra fegato e polmone), la testina e gli zampi di vitello, la coda, i granelli (testicoli), il rognone (reni), le animelle, gli schienali, i torcioli (pancreas), la trippa. Parecchi di questi elementi ci sono già familiari, gli altri saranno trattati qui di seguito per la preparazione dei piatti, considerati un tempo «poveri» e oggi troneggiane nei vassoi dei ristoranti dal nome altisonante, perché offrono ghiottonerie strettamente romane se realizzate con tutti gli accorgimenti richiesti dalla solita cucina paziente, estremamente igienica e fedele alle istruzioni ricevute di generazione in generazione.
Tanto per cominciare, entriamo in argomento col fegato con la cipolla.
Fegato con la cipolla
Per sei persone occorrono 600-700 g di fegato di bue o di vitella, due cipolle a fettine sottili, una cucchiaiata di olio d'oliva.
Il fegato va spellato e privato degli eventuali nervetti per essere poi tagliato a fettine sottili.
In una padella si versa l'olio insieme alle cipolle che devono imbiondire a fuoco moderato. A questo punto si versa il fegato, si aggiunge sale e pepe e si aumenta la forza della fiamma, rigirando con un cucchiaio di legno molto delicatamente. Quando il fegato non ha più alcuna traccia di sanguigno, si toglie la padella dal fornello e la pietanza è pronta per essere servita.
«Cavalcature che conducono le bestie bovine in Roma, per macellare», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1809.
Cuore
Va trattato a fettine sottili con il procedimento seguito per il fegato. Se fosse cotto sulla brace sarebbe un bocconcino ancora più prelibato da degustare molto caldo.
Milza in padella
Va spellata molto accuratamente e tagliata a fettine che si distendono in una padella contenente olio, aglio, una o due alici a pezzettini, sale, pepe e della salvia.
Appena la milza non ha più il suo caratteristico colore rossiccio, ci si spruzza sopra un po' di aceto e si lascia insaporire ancora un po', dopo aver tolto l'aglio.
Torciolo arrosto
Somiglia alle animelle e può essere di vitella, di vitellone e di manzo. Liberato delle pelli che lo avvolgono, il torciolo va aperto con un coltello tagliente in modo da formare un'unica fetta, sulla quale poi si tracciano delle incisioni incrociandole tra loro. Successivamente il torciolo va bagnato da una parte e dall'altra nel condimento di olio, sale e pepe contenuto in un piatto. La cottura ideale va fatta sulla graticola con sotto una brace bella corposa.
Rognoncino di vitella
E un piatto prelibato che richiede una preparazione piuttosto semplice.
Per sei persone occorrono dai quattro ai sei rognoncini di vitella, accuratamente spellati, sgrassati e tagliati a fettine. In una padella si avvia a fuoco vivo un po' d'olio e uno spicchio d'aglio, poi si versa il rognoncino insieme a sale e pepe. Dieci o quindici minuti di cottura, una spolverata di prezzemolo e la ghiottoneria è bell'e pronta.
Per la preparazione c'è chi usa sostituire all'aglio il succo di un limone e chi fa cacciare l'acqua ai rognoncini in una padella a parte.
Ada Boni suggerisce il fuoco basso per non indurire le fettine e inoltre consiglia un'«operazione preliminare»: «Far rosolare leggermente, ma a fuoco fortissimo, il rognone, poi rovesciarlo in uno scola-maccheroni, sotto il quale si sarà messa una scodella. E si lascia così, per un quarto d'ora e più. Si vedrà che, man mano, dal rognone incomincerà a sgocciolare del sangue in abbondanza, ciò che gli farà perdere quel cattivo sapore che altrimenti avrebbe, e che è una delle cagioni per cui molti si astengono dal mangiarlo».
Linguetta di vitella in salsaverde
Per una linguetta lessata e spellata si prepara una salsa che ci piace farci suggerire da Luigi Carnacina: pestare a poltiglia in un mortaio abbondante prezzemolo, due o tre filetti d'acciuga dissalati, qualche cetriolino sott' aceto, una patatina lessa raffreddata, poco aglio e cipolla e un pizzico di sale.
Mettere la poltiglia in una terrina, diluirla pian piano con olio e completarla con un poco di aceto.
Ma a questa ricetta piuttosto semplice Carnacina ne aggiunge un'altra:
Lingua di vitello fredda in salsa piccante
Vale la pena di riportarla per intero.
Cuocere una lingua ben spurgata e pulita in acqua salata per due ore, sgocciolarla al punto giusto di cottura, spellarla mentre è ancora calda, farla raffreddare completamente, affettarla piuttosto fine e disporre le fette accavallate le une sulle altre su un piatto di servizio ovale freddo; tenere in luogo fresco.
Versare tre cucchiaiate d'olio in un casseruolino, mettervi un trito composto di una carota e tre costole di sedano, condire con un pizzico di sale, far cuocere a calore moderato per evitare che il trito rosoli, e lasciar freddare in una fondina. Mettere in una terrina: il pesto composto di sei filetti di acciughe dissalate, 50 g di capperi sotto aceto, un buon pizzico di prezzemolo, 20 g di mollica di pane bagnata leggermente nell'aceto, uno spicchio d'aglio e il trito freddo di carota e sedano, diluire con altro olio e succo di limone, condire con sale e pepe e tenere in luogo fresco con la lingua. Al momento di servire, versare la salsa ben mescolata sulle fette di lingua e decorare i bordi del piatto a fantasia.
Padellotto alla macellaro
Un piatto questo che richiede un buono stomaco e un fegato in piena efficienza, oltre ai valori del colesterolo, tutti contenuti nei limiti di permissività.
Per sei persone occorrono 200 g di ogni componente, ossia animelle, granelli, fegato, pajata, cuore, schienali, lombatello, polmoni, rognoni. Se si riesce a trovarli si aggiungono anche i torcioli.
In un padellone di ferro si fa rosolare nell'olio d'oliva una cipolla tagliata a fettine sottili e uno spicchio d'aglio schiacciato. Poi si comincia a versare il ben di Dio, previsto dalla ricetta, nel seguente ordine: le animelle tagliate a fettine e i granelli (a fettine pure loro), insieme a sale e pepe. Si manda avanti la cottura fino a quando la carne ha perduto il colore del crudo. È il momento allora di mettere giù il polmone tagliato a tocchetti e poi la pajata a ciambelline con un altro pizzico di sale e pepe. Viene quindi la volta del rognone a fettine e necessita anche una mescolata al tutto con una cucchiaia di legno. Tenendo sempre il fuoco molto vivace, si versano il cuore a fettine e il lombatello, anch'esso a fettine e privato della pelle e del nervo centrale, detto spina. Si aggiunge il fegato e poi i torcioli unitamente a un altro po' di sale e di pepe. A un certo punto si sentirà fischiare: sono i pezzi del polmone che si liberano dell'aria contenuta fino a quel momento. E allora bisogna versare mezzo bicchiere di vino bianco secco e lasciarlo evaporare. Fatto questo si aggiungono gli schienali, già lessati un po' e tagliati a pezzi, si versa mezzo bicchiere di aceto e un rametto di rosmarino. Si mescola, facendo ritirare un po' il sugo e si serve il padellotto molto caldo.
Trippa alla romana
Per sei persone sono sufficienti 1 o 1 kg e 1/2 di trippa, preferibilmente cruda. Si taglia a pezzi, si sciacqua e si risciacqua e poi si mette a cuocere in un pentolone con sale, cipolla, sedano e carote. Durante la cottura è necessario togliere la schiuma di tanto in tanto, moderando il calore per circa cinque ore. Una volta cotta, la trippa va ridotta in striscioline larghe quasi un dito. Intanto a parte si prepara un trito di carota, sedano, grasso di prosciutto, peperoncino. Rosolato il tutto per cinque minuti, si buttano giù le striscioline di trippa e appena si sente friggere si versa un bicchiere di vino con tre foglie di lauro. Dopo l'evaporazione si aggiunge il passato di pomodoro e si lascia cuocere il tutto per un'altra mezz'ora. A fuoco spento si fa piovere sulla trippa un trito di menta romana e un'abbondante manciata di pecorino.
Un altro ingrediente favoloso adattissimo alla trippa è il sugo d'umido o garofolato che abbiamo già presentato. In tale sugo si versa la trippa insaporita nel vino e la si lascia finire di cuocere. La menta e il pecorino (c'è chi preferisce il parmigiano) sono obbligatori.
«Venditore di teste di Majali per le strade di Roma detto volgarmente Tripparolo», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1831.
Coda alla vaccinara
La buona Oberdana aveva il chiosco sulla piazza del vecchio Mattatoio a Testaccio e i macellai la conoscevano bene perché era maestra nel preparare marmitte di padellotti, trippa, pajata e soprattutto coda alla vaccinara, la regina del quinto quarto, dice Jannattoni, da sempre considerata emblematica di una particolare romanità, greve e caciarona. Una tesi, dice ancora Jannattoni, che noi respingiamo con risolutezza. La coda è un piatto regale e come tale va rispettato, è un piatto molto difficile che tutti vorrebbero fare, ottenendo il più delle volte risultati deludenti con una coda somigliante al lesso e quindi incapace di suscitare entusiasmi.
Figlia della cucina povera, è vero, ma una grazia di Dio che solo dal profumo fa rinunciare a qualsiasi altro intingolo, appropriandosi di una sovranità assoluta che, tutto sommato, le spetta di diritto.
Si prende una grossa coda di bue e la si lascia lavare bene sotto l'acqua corrente per toglierle ogni traccia di sangue. Tagliata a rocchi, va messa in un grosso tegame per unirla a un soffritto di lardo (o guanciale) e olio. Appena rosolata, vi si versa una cipolla tritata con due spicchi d'aglio, alcuni chiodi di garofano, sale e pepe. Evaporata l'acqua emessa dalla coda, si aggiunge un po' di vino bianco secco e si copre il tegame, lasciandolo cuocere per un quarto d'ora. Subito dopo si aggiungono i pomodori pelati nella misura di 1 kg.
Dopo circa un'ora si coprono i rocchi di coda con acqua calda, si chiude di nuovo il coperchio e lentamente si manda avanti la cottura per altre cinque o sei ore, fintanto che la carne non si distacchi dall'osso. In un'altra pentola intanto si lessano dei sedani bianchi puliti e privati di ogni filamento. Appena pronti si versano in un altro recipiente dove è stato messo un po' di sugo di coda e si aggiungono un po' di pinoli, un po' di uva passa e un po' di cioccolata amara grattugiata.
Questa salsa va fatta bollire per cinque minuti e poi, versata sulla coda, va servita ai commensali in piatti caldi.

Altre carni
Abbacchio alla cacciatora
Per sei persone occorrono 2 kg di abbacchio spezzettato a tocchetti che vanno messi a rosolare nell'olio contenuto in una padella capiente. Un po' di sale, un po' di pepe e frequenti mescolate con una cucchiaia di legno. Ottenuta una colorazione omogenea della carne, si abbassa la fiamma e si aggiunge uno spicchio d'aglio, un po' di rosmarino e una foglia di salvia. Si fa rosolare di nuovo a fuoco vivo e poi si lascia piovere sull'abbacchio una cucchiaiata di farina. Si gira ancora e si versa mezzo bicchiere di aceto con mezzo bicchiere di acqua. Se il fondo liquido si dovesse ritirare, è bene aggiungere un altro po' d'acqua. Dopo qualche minuto si versano due cucchiaiate del sugo dell'abbacchio in un tegamino a parte dove è stato creato un pisto con i filetti di due acciughe lavate, spinate e schiacchiate. Questa poltiglia dovrà poi finire nella padella dell'abbacchio per insaporirlo ancora di più e renderlo particolarmente appetitoso.
Capretto brodettato
E un piatto pasquale molto gustoso che va preparato come segue: si mettono in un tegame mezzo bicchiere d'olio d'oliva, 50 g di prosciutto grasso e magro tagliato a dadini, mezza cipolla a fettine sottili e 1 kg, o 1 kg e 1/2, di capretto tagliato a pezzetti. Si avvia la cottura a fuoco lento per fare indorare la cipolla, poi si condisce con sale e pepe e si lascia cadere mezzo cucchiaio di farina sull'abbacchio. Si mescola il tutto e si versa mezzo bicchiere di vino bianco secco. Appena questo è evaporato, si aggiunge acqua fino a coprire la carne. Quando si è prossimi alla cottura si versano tre rossi d'uova sbattuti e uniti al succo di un limone, a un trito di prezzemolo e a qualche foglia di maggiorana. Si mette il tegame all'angolo del fornello per permettere all'uovo di amalgamarsi con il sugo e la carne, senza stracciarsi.
Coratella d'abbacchio con i carciofi
Si tratta delle interiora dell'abbacchio, dell'agnello e del capretto.
Si tagliano in piccoli pezzi il polmone, il cuore, il fegato e le budelline. In una padella si lasciano cuocere nell'olio il polmone e le budelline. Quando il polmone emette una specie di sibilo, si aggiunge il cuore e si continua la cottura con un po' di sale e di pepe. Appena i pezzetti di coratella saranno di colore scuro, si aggiunge il fegato insieme ai carciofi cotti a spicchi, in un altro tegamino, in un'abbondante cucchiaiata di olio. Se è il caso, si fa cadere ancora sulla coratella un pizzico di sale. Da ultimo si completa o col succo di un limone o con un po' di marsala.
Involtini di carne
Costituiscono un piatto veramente romano che ci dà sia la carne come pietanza che il sugo per condire pastasciutta o risotto.
Un chilo di fettine di girello è sufficiente per sei persone. Le fettine spianate sul tavolo vanno stropicciate con sale e pepe. Poi vi si stende una fetta di prosciutto (anche la mortadella è gradita in sostituzione); si aggiunge un pezzetto di carota e uno di sedano, poi le fettine si avvolgono a forma di salsicciotto che va chiuso o con del filo o con degli stecchini. Nel tegame si mette un po' d'olio d'oliva con cipolla, sedano e carota (tutti a pezzetti) e si aggiunge un battuto fatto con un po' di guanciale o grasso di prosciutto, uno spicchio d'aglio e un ciuffo di prezzemolo. Una mescolata e appena il tutto è ben rosolato si fanno entrare nel tegame gli involtini, che appena diventati di colore scuro, vanno bagnati con mezzo bicchiere di vino. Raggiunta l'evaporazione si versano circa 700-800 g di pomodori a pezzi, con l'aggiunta di acqua. Quindi il tegame va coperto e si lascia che la cottura si completi adagio adagio. Gli involtini vanno serviti accompagnati da un po' del loro sugo e da un contorno a piacere.
Saltimbocca
Ada Boni ci mette sull'avviso circa l'appartenenza di questo piatto all'antica cucina romana. Ci sono dei punti interrogativi. Ma ciò non toglie che i «saltimbocca» siano da considerare ugualmente romani per la loro lunga permanenza nella nostra città, per la simpatia che li rende attraenti, per la semplicità così appetitosa per cui il buongustaio li annovera tra le cose più gradite.
Con 600 g di fettine di vitello si possono soddisfare sei commensali. Si raccomanda che le fettine siano sottili e non troppo grandi. Dopo averle spianate, si fermano su ciascuna di loro con uno stecchino una foglia di salvia e una fetta di prosciutto. Lo stecchino va infilato come uno spillo che unisce tre lembi insieme. Si fa poi liquefare in una teglia circa 1/2 hg di burro e subito dopo si mette la carne insaporita col sale e un pizzico di pepe. La cottura va fatta a fuoco vivace per pochi minuti avendo l'avvertenza di girare le fettine per renderle uniformi. Quindi si adagiano in un piatto largo in modo però che il prosciutto rimanga di sopra. Intanto si versano nella teglia una o due cucchiaiate di acqua e si stacca il fondo della cottura con l'ausilio di un cucchiaio di legno. Facendo liquefare un altro pezzetto di burro si ottiene una salsetta appetitosa destinata a finire sui saltimbocca, ormai pronti per essere mangiati caldissimi.
Costolette d'abbacchio a scottadito
Per leccarsi poi i baffi occorre far funzionare la brace. Le costolette vanno allineate sulla gratella unte di olio (un tempo si preferiva lo strutto liquefatto) e con un po' di sale e un po' di pepe. La cottura va fatta ora da una parte ora dall'altra. E poi? E poi sono da considerare un bocconcino gustosissimo che fa benedire il primo che le ha... inventate.
Abbacchio arrosto
Sia l'abbacchio che il capretto sono gli animali che ci danno una carne saporitissima e tenerissima, immancabile sulle nostre mense soprattutto nelle feste pasquali.
Il pezzo da arrostire va condito con sale e pepe e qualche rametto di rosmarino e messo in una teglia unta di olio (o di strutto). Insieme si possono mettere anche delle patate sbucciate e tagliate a spicchi.
Il tutto va quindi introdotto nel forno dove l'arrosto deve acquistare un colore dorato. Chi avesse lo spiedo, ne approfitti e otterrà un risultato paradisiaco.
Lo stufatino
Occorre la polpa di stinco del quarto di dietro del bue e più propriamente del «pulcio», il muscolo allungato. Ridotto in fettine, circa 1/2 kg per quattro porzioni, il muscolo va messo in un tegame dove già è stato fatto rosolare un po' di guanciale con un po' d'aglio in un soffritto leggero di cipolla tritata e olio. Si aggiunge sale, pepe e una pizzicata di maggiorana e si lascia rosolare. Al momento giusto si versa mezzo bicchiere di vino rosso e lo si lascia evaporare, così è possibile aggiungere i pomodori pelati e privati dei semi. Si avvia in tal modo la cottura e dopo pochi minuti si versa ancora dell'acqua per ricoprire lo stufatino; si copre il tegame con un coperchio e lo si lascia tranquillo a fuoco basso per almeno un paio d'ore. Qualora durante questo periodo di tempo il liquido del sugo dovesse asciugarsi troppo, è necessario versare altra acqua. Si badi però che lo stufatino deve arrivare in tavola con una salsa densa, scura e saporita. Per il contorno vanno bene i sedani lessati o i cardoni, detti a Roma «gobbi», anch'essi lessati. Ambedue vanno fatti insaporire nel sugo dello stufatino.
Zucchine ripiene
Per ogni commensale occorrono due zucchine, di quelle romanesche piccoline del peso di circa 100 g; ognuna di esse va privata della parte interna con un apposito attrezzo chiamato, per l'appunto, «vuota-zucchine». Attenzione a non intaccare la parte esterna. Fatto questo si prepara un sostanzioso ripieno composto di carne di manzo tritata, un uovo intero, due cucchiai di parmigiano grattugiato, un pezzo di mollica di pane (senza esagerare) ammollata nell'acqua o, meglio, in un po' di latte, e poi spremuta, qualche pezzetto di prosciutto, sale e pepe.
Si impasta bene il tutto e un po' alla volta ci si riempiono le zucchine. In un tegame capace di contenere le zucchine tutte allineate, si versa un po' d'olio, un po' di cipolla a fettine sottili, un pochino di prezzemolo e un po' di grasso di prosciutto, tritati. All'indoratura si aggiungono i pomodori pelati, versando successivamente uno «sgommarello» d'acqua, sale e pepe. Fatto bollire il sugo per qualche minuto, si mettono le zucchine, si abbassa la fiamma e si copre il recipiente con un coperchio. La cottura deve andare avanti per quasi un'ora, ma sempre con fuoco moderato. Questa pietanza straordinariamente appetitosa è l'unica nel suo genere e inconfondibile, a condizione però, che le zucchine siano ben cotte senza diventare sfatte e abbondino di sugo denso e saporito.
Questa è la ricetta ufficiale. Esiste tuttavia una variante consistente nel friggere le zucchine ripiene nell'olio di una padella di ferro e passarle poi nel sugo del tegame fino a cottura completa. In questo modo sono favolose e più se ne mangiano e più se ne vorrebbero mangiare.
«Venditori di Gallinacci in Roma», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1821.
Pollo alla romana
Un'altra specialità dell'arte culinaria romana. Per sei persone basta un pollo del peso di 1 kg che va pulito per bene alla fiamma, tagliato a pezzi, lavato con cura e asciugato. In una padella si versa un cucchiaio di olio d'oliva e una sessantina di grammi di prosciutto grasso e magro tagliato a striscioline.
Appena il prosciutto comincia a rosolare, si mette il pollo e lo si lascia imbiondire rigirandolo frequentemente. Subito dopo si aggiunge uno spicchio d'aglio, insieme a qualche foglia di maggiorana e mezzo bicchiere di vino bianco secco, sale e pepe.
Si gira e si rigira il pollo finché il vino non si sia consumato e la carne non si sia rosolata a sufficienza. Solo allora si versa il pomodoro pelato (1/2 kg) e si aumenta la fiamma.
Se la salsa dovesse cominciare a restringersi, si versa un po' d'acqua o, meglio, un po' di brodo.
Occorrono venti minuti perché il pollo risulti bene insaporito in un sugo non abbondante, ma sostanzioso, senza che abbia acquistato troppo il colore del pomodoro.
Pollo spezzato con i peperoni
Vale la ricetta precedente. La sola variante sta nella partecipazione dei peperoni gialli e rossi, e anche verdi, basta che siano dolci e preparati a parte. Ogni peperone va arrostito sulla brace (ma anche il fornello casalingo va bene), poi va messo in una bacinella contenente acqua per una pulizia completa e l'eliminazione totale della pellicola carbonizzata. In una padella si fa rosolare nell'olio una cipolla tagliata a fettine sottili. Alla sua indoratura si versano tre o quattro pomodori a pezzi, pelati e senza semi.
Si lascia che la cottura sia arrivata e dopo qualche minuto si aggiungono i peperoni tagliati a pezzi e un po' di sale.
Altri venti minuti di cottura e i peperoni sono pronti per passare nel recipiente del pollo quando è quasi cotto. Si lascia insaporire il tutto e poi si può peccare pure di gola.

Le lumache
La festa di S. Giovanni: un ricordo che svanisce a poco a poco. Scomparsa l'allegra cagnara della notte tra il 23 e il 24 di giugno; scomparso il profumo dei garofani e della spighetta che le nostre mamme e le nostre nonne ci facevano ritrovare a mazzetti tra la biancheria candida e morbida; scomparsi i piccoli concerti di chitarre e mandolini, disturbati a volte dal suono del campanaccio di coccio; scomparse le gare di poesia romanesca e di canzoni romane; scomparse anche le «bettole» richiamanti gli avventori con gli effluvi del magico succo di Bacco.
Ma non sono scomparse le lumache, ancora amate da tanti buongustai, fedeli custodi di una tradizione che speriamo non si lasci travolgere dai moderni «tempi migliori».
Per preparare un buon piatto di lumache non ci resta che affidarci all'antica ricetta romana passata di famiglia in famiglia senza mutare mai, neanche di una virgola.
Le preferite sono le lumache di vigna che un tempo ci venivano portate in voluminosi cesti di vimini dalle belle venditrici ambulanti al grido di «lumacheee! so' de vigna le lumacheee!». In quei cesti c'era un movimento continuo perché le vignaiole mantenevano vive le lumache con pezzi di mollica bagnata e qualche foglia di vite. Dopo un riposo di un paio di giorni le lumache acquistate venivano messe a mollo in una capiente catinella colma d'acqua mescolata a un pugno di sale e a un bicchiere d'aceto. Un po' di movimento con le mani per sollecitare l'uscita di abbondante schiuma. Poi si getta via l'acqua e se ne mette altra sempre accompagnata dal sale e dall'aceto; questa operazione si deve ripetere più volte e alla fine si procede ad un lavaggio d'acqua fresca accuratissimo: insomma della bava delle lumache non deve rimanere traccia alcuna. I molluschi, dopo questo trattamento, devono passare in un tegame contenente acqua fredda e messe sul fuoco alquanto debole. Quando le lumache cominciano a tirar fuori la testa dal guscio, aumentare la fiamma per far rimanere stecchite le bestiole, ormai avviate a un preciso destino. Per dieci minuti si lascia che il recipiente abbia un bollore omogeneo, poi si pescano le lumache con una «schiumarola» e si versano in acqua fredda per un lavaggio accurato e definitivo.
Intanto in un tegame di coccio si mette un po' d'olio, qualche spicchio d'aglio e alla sua indoratura si aggiungono tre o quattro alici, lavate, spinate, tagliate a pezzettini e schiacciate col cucchiaio di legno. Fatto questo, si versano i pomodori pelati, tenendo conto che le lumache hanno bisogno di sugo in abbondanza. Non ci si dimentichi di togliere i semi ai pomodori che inoltre vanno ridotti a pezzetti.
Nel momento in cui la salsa si fa densa, la si condisce con sale, abbondante pepe e qualche foglia di mentuccia. Per ottenere un sapore più piccante, fare entrare in azione un pezzo di peperoncino rosso. Adesso è la volta delle lumache che, versate nel tegame, si lasciano insaporire per bene a fuoco moderato per circa mezz'ora.
«Il Callararo», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1810.

La verdura cruda e cotta
La prima regola importantissima per la preparazione dei piatti di verdure è quella di caparle bene, pulirle con pignoleria, sciacquarle e risciacquarle: insomma renderle degne di un condimento a base di sale, olio e aceto.
L'insalata varia nel tipo di erba che si prepara: lattughella da taglio, lattuga a pezzi, ruchetta, indivia, scarola, cappuccina, cicorietta, misticanza, raponzoli, sedano, finocchi.
Un'insalata molto estiva, gustosissima e appetitosa è quella a base di pomodori verdi, accompagnati da foglie di basilico. I finocchi possono stare pure da soli, tagliati a pezzetti e conditi con sale, pepe e ottimo olio d'oliva extra vergine.
Che dire poi delle «puntarelle»? Vanno d'accordo come contorno con l'abbacchio al forno. Ne parleremo dopo.
Un altro tipo di verdura da insalata è il «crescione», consigliato contro la caduta dei capelli e il mal di denti. Segue la «gallinella», una delizia di insalata chiamata pure «valerianella»: quindi calma i nervi troppo scossi.
Uno sfizio: il cazzimperio
E ora, dopo tante pantagrueliche tappe lungo il percorso tracciato dal ricettario della cucina romana, in una nube di aromatiche essenze osannanti al buon gusto e al piacere della tavola imbandita, ecco inserirsi il «cazzimperio», ultimo tocco magico di un pranzo luculliano.
Godiamo così di un'altra prova della semplicità di una tradizione risalente alle origini della rustica mensa romanesca.
Pepe macinato, sale e olio in abbondanza: questi sono i pochi ingredienti per creare uno sfizio «indove se pò intigne sellerò, finocchi e ravanelli», accompagnando magari ogni morso con piccole frasi spiritose e allusive di ispirazione fallica.
Puntarelle
È un piatto non romano, ma romanissimo. Riguardo alla parola «puntarelle» il Belli annota in calce al sonetto «Abbada a chi piji»: «Insalata fatta dal tallo di cicoria presso all'insemenzire». Ma Jannattoni non si accontenta, anzi fa rilevare che il Belli «forse doveva pure precisare che si tratta di una particolare varietà di cicoria, la "Catalogna", i cui germogli danno in realtà origine alle "puntarelle"».
Dopo questo doveroso chiarimento, accingiamoci a preparare la nostra insalata sprigionante sapore e buon gusto da tutte le foglie.
Pulite e ben lavate le puntarelle vanno fatte asciugare, mentre in un mortaio si prepara un pesto con uno o più spicchi d'aglio e qualche acciuga lavata, spinata e tagliata a pezzi. Una bella pestata al tutto, stemperando con l'aceto, e poi abbondante olio, sale e pepe; una mescolata come si deve e la salsa è pronta per finire in seno alle puntarelle: ogni forchettata manda in estasi il palato. Tuttavia è consigliabile non darsi subito all'oratoria, perché l'aglio è un elemento tanto vanitoso che pretende sempre di far notare la sua presenza. Alcuni buongustai amano aggiungere alle puntarelle anche qualche spicchio di uova sode.
Misticanza
È una insalata, a dir poco, favolosa che risale al tempo in cui i frati cappuccini, recandosi di tanto in tanto dai loro benefattori per ritirare la questua, lasciavano in compenso un po' della squisita mescolanza di erbe varie e fragranti: acetosa o erba brusca, barba di frate o erba stella, burragine, bucalossi, caccialepri, cariota, cicorietta, erba noce, cerfoglio, grespigno, indiviola, lattughella, ojosa, piede-di-papavero, pimpinella, porcacchia, radicette, raponzoli, ricetta, ruchetta. Tutte le erbe vanno condite con sale, pepe, olio d'oliva extra vergine e aceto. Volendo si possono aggiungere anche due filetti di acciughe dissalati e schiacciati con la punta della forchetta.
A questo punto non dimentichiamo il proverbio che insegna: «Pe condì bene l'insalata ce vonno quattro persone: un sapiente pe mettece er sale, un avaro l'aceto, uno spregone l'ojo e un matto che la mischi e la smucini».
Spinaci alla romana
Per quattro persone occorre 1 kg di spinaci puliti con molta cura, lavati con pignoleria e quindi lessati. Subito dopo vanno scolati ben bene, messi sotto l'acqua corrente fredda per raffreddarli e infine strizzarli. A questo punto si fa soffriggere in un tegame il burro (80 g), con due cucchiaiate di olio d'oliva e due spicchi d'aglio schiacciati che, appena indorati vanno buttati via. È questo il momento di versare nel tegame gli spinaci con 25 g di uvetta, 25 g di pinoli, sale e pepe bianco macinato necessari. Si mescola il tutto e si lascia insaporire per dieci minuti a fuoco molto moderato. Gli spinaci vanno serviti ben caldi.
Broccoli a crudo
I broccoli vanno mondati accuratamente e tagliati a pezzetti senza tra-scuare le foglie più tenere; anche i gambi devono essere tagliati per tutta la loro lunghezza. Completata questa prima operazione, foglie e rimette si immergono in acqua fredda. In un tegame intanto si mette un po' d'olio insieme a due spicchi d'aglio tritati e si lascia soffriggere fino all'indoratura, perché solo allora è possibile mettere giù le sole foglie ben sgocciolate insieme a sale e pepe. Non appena le foglie si sono ammalvite, entrano nel tegame i broccoli ben sgocciolati. Si lascia insaporire il tutto e poi si aggiungono uno o due bicchieri di vino secco. La quantità dipende da quanti broccoli si vogliono preparare. La cottura va fatta a fuoco lento e col tegame coperto, facendo attenzione che i broccoli hanno bisogno di essere mescolati di tanto in tanto per rimanere intatti.
La mansione del coperchio è importante, tanto è vero che i broccoli vengono detti anche «affogati».
Il mercato di piazza Navona in un' incisione ottocentesca.
Broccoletti di rape
Sì, è vero che questa verdura è buona anche lessata e condita con olio, sale e succo di limone, ma, come si dice a Roma, la loro morte è a crudo nel tegame. La pazienza per prepararli sta tutta nella pulitura: un broccoletto alla volta va privato delle foglie più grosse, dei torsoli legnosi e delle parti filamentose. Puliti e risciacquati vanno messi sul fuoco in un tegame dove è stato fatto imbiondire uno spicchio d'aglio nell'olio d'oliva. Si versano quindi i broccoletti con sale e pepe (va benissimo anche un pezzo di peperoncino), lasciandoli cuocere adagio adagio e mescolandoli ogni tanto. Se dovessero farsi troppo asciutti intervenire con una spruzzata d'acqua. Il tegame va ben coperto perché il vapore non deve uscire fuori, anzi il suo compito è quello di ammalvire la verdura che risulterà stracarica di gustoso sapore. Un piccolo consiglio lontano dall'etichetta: se è possibile, degustate i broccoletti in una rosetta calda e senza mollica. In casa propria si può anche fare.
Carciofi alla romana
È un dono divino che non ha uguali. Basta che il carciofo sia romanesco, ossia che provenga dalla zona compresa tra Roma e Civitavecchia e particolarmente dalla campagna romana di Cerveteri e Ladispoli. Il segreto, ammesso che si tratti di segreto, per ottenere un carciofo tutto da gustare, grazie alla sua tenerezza, sta nel saperlo «capare», ossia nel saperlo liberare completamente dalle foglie dure, altrimenti, come si dice volgarmente a Roma, «ciancichi e sputi». La massaia esperta, pignola ma non esagerata, taglia la parte più dura delle foglie, quella superiore per intenderci, con un coltellino a punta, ben affilato, cominciando dal fondo che ha le foglie più tenere, per proseguire così fino al centro. Il carciofo allora acquista una forma sferica. In particolare, riguardo alle prime foglie da togliere, la massaia accorta si affida alle proprie dita e, foglia dopo foglia, le spezza nel punto dove finisce il tenero che, dall'alto verso il basso, viene liberato anche della pellicola leggera che lo ricopre. A questo punto si pulisce il gambo, togliendogli senza affondare troppo il coltello, la corteccia; quindi si immerge il carciofo in acqua bene acidulata con succo di limone, affinché non si faccia nero. Successivamente, apertagli bene la bocca e battutala più volte sulla tavola, se ne estrae dall'interno l'eventuale fieno, a Roma detto «pelo», poi vi si introduce un pezzetto d'aglio, un pizzico di mentuccia (sostituibile con un ciuffetto di prezzemolo), insieme a sale, pepe e abbondante olio d'oliva. Una strofinata esterna leggera con un po' di sale e un po' di pepe non guasta. Ogni carciofo così preparato si dispone capovolto in un tegame, preferibilmente di coccio, con i bordi alti affinché i gambi rimangano dritti e fermi durante la cottura. Nel tegame si versa poi tanto olio extra vergine d'oliva quanto ne occorre per coprire a metà i carciofi e si aggiunge inoltre l'acqua necessaria perché la copertura sia totale. I carciofi si mangiano caldi e anche freddi. Mai riscaldati.
La cicoria
E un'erba che costituisce, dice Jannattoni, un dono tutto particolare del suolo romano che forse ancora si lascia cogliere in qualche spianata come quella del Circo Massimo.
Essendo la cicoria un prodotto spontaneo della terra, si trova alla mercè di ogni tipo di sporcizia, per cui è necessario, una volta pulita bene, sciacquarla e risciacquarla più volte per poi lessarla e quindi appallottolarla. La cicoria è un ottimo piatto da contorno e va condita all'agro, ossia con olio, sale e limone. Ma la morte sua è "strascinata" in padella. In una padella di ferro si fanno soffriggere nell'olio due spicchi d'aglio che, appena rosolati, si gettano via: quindi si versa per 6 persone una chilata di cicoria lessa che si lascia insaporire con sale e peperoncino, rivoltando bene, cioè "strascinando". Questa preparazione vale anche per l'indivia e i broccoletti di rape.
Gobbi alla parmigiana
Le melanzane non hanno l'esclusiva della ricetta alla parmigiana, per cui abbiamo creduto opportuno superarle, in quanto ciò che stiamo per proporre vale anche per loro. L'importante sta nel tagliare le melanzane sbucciate a fettine e sottoporle, sotto pressione, allo spurgo dell'amaro per mezzo di alcune spolverate di sale. Quindi lavate per bene sotto l'acqua corrente e strizzate a dovere, possono essere fritte dorate, ossia infarinate e introdotte nella padella dopo un bagno nell'uovo sbattuto. Una variante sta nell'affettare le melanzane senza sbucciarle, metterle sotto sale e passarle così come sono nella padella per friggerle.
La ricetta della parmigiana vale pertanto per i gobbi, per i carciofi e per le stesse melanzane. In quanto ai gobbi però si tenga presente che prima di essere fritti dorati, devono essere lessati.
In un tegame si fa indorare nell'olio vergine d'oliva una cipolla tagliata a fettine sottilissime e accompagnata da sale e pepe o, se si preferisce, da una punta di peperoncino rosso. Poi si aggiunge la passata di pomodoro, fresco o in barattolo, e si lascia che il tutto cuocia, fino ad ottenere un sugo cremoso, ma non troppo denso. In una teglia da forno, appena si è raggiunta la cottura del sugo, se ne versano due o tre cucchiai, spalmandoli tanto da bagnare tutto il fondo della teglia stessa, poi vi si dispongono i gobbi, o i carciofi o le melanzane (tutti fritti dorati), e si forma il primo strato. Subito dopo si copre con altre due o tre cucchiaiate di sugo, qualche dadino di burro, una manciata di mozzarella tritata e abbondante parmigiano grattugiato. Si ripete il tutto sopra un secondo strato di gobbi o di carciofi o di melanzane, e anche su un terzo e così via, fintanto che si hanno gobbi o carciofi o melanzane a disposizione. La teglia va poi introdotta nel forno caldo e vi si lascia per una ventina di minuti, ossia fino a quando non appare sulla superficie del preparato una crosticina biondo scura. La delizia delle delizie è pronta per un ennesimo peccato di gola.
Melanzane a funghetto (prosa dell'autore dall'Apollo buongustaio 1987)
Non me la sento di continuarle a chiamarle «melanzane»: è più forte di me. Con «marignani» mi è più facile e mi trovo a mio agio, così la penna scorre meglio sulla carta che già attende impaziente la ricetta. Oh, una ricetta semplice, alla portata di tutti e, grazie alla moderna tecnica dell'agricoltura, applicabile in qualunque periodo dell'anno. Certo il sapore dall'orto alla serra cambia un po', ma se ne avvantaggia il vegetariano che di sicuro davanti a un piatto di «marignani a funghetto» non può rinunciare a un peccato di gola così genuino, così umile, così francescano.
Innanzi tutto raccomando la scelta del marignano; la buccia scura o quella bianca screziata color... melanzana non pregiudica in alcun modo. L'occhio deve individuare il sesso per non offendere il palato con l'invasione, in bocca, dei semi. Mi è stato detto, e noi ci crediamo col beneficio dell'inventario, che nella parte inferiore del marignano, il nodo posto al centro è la spia della individuazione: se a forma di taglio, il marignano è femmina, altrimenti è un... seminatore. Ho seguito il consiglio, ma... beh, lasciamo perdere. Fatta tuttavia la scelta, si procede alla sbucciatura e alla riduzione del marignano in tanti cubetti di modesta grandezza: a tocchetti, per intenderci meglio; quindi si salano senza esagerare e si mettono sotto pressa in un colapasta, affinché avvenga lo sgocciolamento e la liberazione dell'amaro. Mentre mi dedico alla vivisezione del marignano, mia moglie è già davanti al fornello a tagliuzzare un paio di spicchi d'aglio nell'olio del tegame, dove stanno galleggiando alcuni piccoli brandelli di peperoncino rosso. Appena i marignani hanno scontato il proprio purgatorio e un getto d'acqua corrente li ha liberati delle ultime... amarezze, come anime riemerse dal Lete, il tegame li invita al tuffo finale nell'olio bollente, dove l'aglio si è già indorato al passo di un tango lento. Un pizzico di sale, un coperchio e si affidano i marignani alla loro metamorfosi; ogni tanto una «mucinata» e, all'avvicinarsi della cottura completa, si premia l'olocausto dei marignani sparpagliando sui resti profumati, imbevuti di gustoso sapore, una manciata di foglioline di prezzemolo. Raccolti in un piatto, i «marignani a funghetto» raggiungono così la tavola: sembrano discesi dall'Olimpo luccicanti d'olio e superbi nel loro verde prezzemolo: un serto di gloria che non ha nulla da invidiare a quello di allor cingente le divine tempie di Apollo.

Legumi e patate
Quando si parla di legumi si pensa quasi sempre a qualcosa di poco raffinato o addirittura, secondo alcuni, ad elementi naturali carichi di doti afrodisiache. Il Platina era convinto che i legumi agissero in maniera infausta sull'organismo umano, producendo bile nera, gonfiori e anche un leggero abbassamento della libido. E invece non è così. Lo prova il fatto, per esempio, che la lenticchia è dotata di un influsso capace di capovolgere in maniera positiva la situazione finanziaria di chi le mangia. I ceci al tempo dei nostri padri romani godevano del privilegio di un posto di primo ordine sulla mensa insieme alle olive.
Il fagiolo, «carne dei poveri», era amato perfino da Giove e cresceva nei dintorni dell'Olimpo. Il padre degli dèi andava matto per la fagiolata senza preoccuparsi del rigonfiamento ventrale che riusciva a smaltire coll'aiuto di abbondanti libagioni.
Fagioli con le cotiche
Per sei persone occorrono 350 g di fagioli cannellini secchi (meglio se freschi: allora la dose cambia in proporzione), che puliti e lavati vanno lessati in una pentola di coccio con acqua appena salata e uno spicchio d'aglio. Insieme va messo un rametto di rosmarino e un osso di prosciutto già fatto sbollentare per qualche minuto. Si passano intanto alla fiamma per eliminare i peli 150 g di cotiche di prosciutto. Sbollentate poi e tagliate a pezzi di 4-5 cm di lato, si lasciano cuocere in una casseruola, a calore moderato, coperte d'acqua fredda abbondante e infine vanno sgocciolate durette.
In un tegame a parte si fa rosolare nell'olio un trito di 40 g di grasso di prosciutto, 1/4 di cipolla, uno spicchio d'aglio, basilico e prezzemolo; si aggiungono 350 g di polpa di pomodoro e si condisce con sale e pepe macinato al momento. Si sgocciolano quindi i fagioli ben cotti e si versano nel tegame della salsa, si aggiungono le cotiche e la carne tolta dall'osso di prosciutto, tagliata a pezzetti. Fatto questo, si lascia insaporire a calore moderato. Se la salsa diventa troppo densa, si aggiunga un po' d'acqua alla cottura dei fagioli.
Un piatto di questo genere non è di certo un piatto ricercato, ma è di sicuro effetto, di alto gradimento e di notevole nutrizione. Del resto, come la maggior parte dei legumi detti fecolenti, i fagioli, avendo un contenuto di azoto maggiore rispetto alle carni, permettono la ricostituzione dei tessuti cellulari. Insomma un piatto di fagioli con le cotiche al centro della tavola imbandita ha la forza di creare all'istante un'atmosfera di allegria tale tra i commensali che, in men che non si dica, gastriti, ulcere e ribellioni epatiche varie vengono completamente fatte entrare nel dimenticatoio. Anzi c'è qualcuno, forse il più acciaccato, che affida il coraggio alla forchetta, lasciandosi sfuggire a fior di labbra «semel in anno licet insanire». E si sa bene in giro quanti giorni conti quell'anno!
Fagioli alla romana
Riportiamo la ricetta offertaci da Matilde Laurenti.
Ingredienti: tre acciughe salate, 30 g di burro, olio vergine d'oliva, noce moscata, sale e pepe, 400 g di fagioli, una cipolla.
Il condimento da preparare richiede che i filetti di acciughe siano lasciati sciogliere a fuoco lento nell'olio e in tre cucchiai dell'acqua in cui sono stati lessati i fagioli. Si fa soffriggere in un altro tegamino la cipolla tritata, insieme al burro, al pepe e a un pizzico di noce moscata. Quindi si mescola il tutto con i fagioli e si lascia amalgamare a fuoco lento fino a ottenere la completa evaporazione del liquido in più. Si raccomanda di mescolare continuamente, con delicatezza e con l'aiuto di un cucchiaio di legno.
Fave col guanciale alla romana
Ci vogliono le fave piccolette e romanesche; per sei persone ne bastano 600 g al netto. In un tegame si fanno soffriggere la cipolla e 150 g di guanciale nell'olio (un paio di cucchiai); poi si versano le fave, si condisce con sale e pepe e si aggiunge qualche cucchiaiata di acqua fredda. La cottura deve essere fatta a fuoco vivo.
«Donne popolari con fanciulli nelle strade di Roma», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1831.
Lenticchie col cotechino o lo zampone
Dice Giggi Zanazzo: «A Roma, er primo dell'anno se magneno le lenticchie e l'uva; perché chi magna ste du' cose, dice, che conta quatrini tutto l'anno». E noi puntualmente, con mille speranze in girotondo nella testa, eseguiamo alla lettera il consiglio e magari un piccolo assaggino appena scocca la mezzanotte del 31 dicembre non ce lo facciamo scappare: ogni lenticchia è una promessa in cui non crediamo troppo, ma per quella data torniamo sempre a ripetere il tradizionale rito.
Intanto pensiamo a come preparare le nostre lenticchie.
Si soffrigge una cipolla media nell'olio vergine d'oliva; si aggiunge un barattolo di pomodoro passato, sale e pepe. Durante la cottura si lessa in una pentola a parte il cotechino immerso completamente nell'acqua fredda, mentre le lenticchie vanno lessate in compagnia di un gambo di sedano, di una carota, di una cipolla, di uno spicchio d'aglio e di una presa di sale. Nella salsa appena pronta si versano le lenticchie e un mestolo di acqua, la stessa in cui sono state lessate, e si lascia insaporire. Ad esse va aggiunto il cotechino, o lo zampone, tagliato a fette. Appena tutto è pronto si versano lenticchie e cotechino nei piatti dei commensali e... buona fortuna!
Piselli al prosciutto (per 6-8 persone)
Nel burro (100 g) fatto sciogliere in un tegame si lasci cuocere la cipolla e subito dopo si aggiungano i pisellini sgranati (500 g), un po' di sale, un pizzico di pepe e un altro di zucchero e infine qualche cucchiaiata di brodo di carne o di dado. Alcuni minuti prima di fine cottura aumentare la fiamma e aggiungere 150 g di prosciutto crudo leggermente grasso e tagliato a listarelle.
Ada Boni è più precisa nel dettarci la ricetta: «Si mette in una casseruola un po' di strutto (si può anche sostituire lo strutto con il burro, ma la tradizione vera comporta lo strutto) e si aggiunge una cucchiaiata di cipolla tritata finissima. Si lascia cuocere adagio adagio affinché la cipolla cuocia senza colorirsi e poi si mettono giù i piselli. Si condiscono con sale e pepe e si aggiunge qualche cucchiaio di brodo o d'acqua. A questo punto si intensifica il fuoco e si porta la cottura vivacemente, mescolando di quando in quando. I piselli romaneschi cuociono in una decina di minuti. Qualche minuto prima che il pisello raggiunga la sua completa cottura si aggiunge una cucchiaiata (o due) di prosciutto in listarelle.
C'è chi mette il prosciutto in principio, insieme alla cipolla, ma secondo noi questo è un errore perché la cottura troppo prolungata fa sfrittolare il prosciutto che non rimane più morbido e gustoso come quando si aggiunge quasi alla fine.
Altri aggiungono ai piselli, prima di versarli nel piatto, una pizzicata di zucchero in polvere, ma quest'aggiunta è perfettamente inutile quando s'adopra il pisello romanesco, che è già tanto dolce di per sé da non aver bisogno di ulteriori dolcificazioni».
Frittata di patate un po' a modo nostro
Se c'è pietanza gustosa, semplice, alla portata di tutte le tasche e capace di sostituire un primo piatto lasciando ugualmente sazi e con la bocca buona, essa è proprio la frittata di patate che, si tenga ben presente, rifiuta la partecipazione delle uova. In realtà viene fuori una specie di torta; ma evitiamo la pignoleria sulla forma, guardiamo piuttosto la sostanza e prepariamoci a peccare di gola, secondo le norme dettate da una ricetta di facile preparazione.
Si lessa una chilata di patate e in una padella di ferro piuttosto capiente si fa rosolare, ma non troppo, nell'olio vergine d'oliva, una cipolla tagliata a listelle sottili e 1 hg (1 hg e 1/2, secondo i gusti e la funzionalità del fegato) di pancetta arrotolata o, se si preferisce, di guanciale tagliato a pezzettini quadrati.
Le patate una volta lessate vanno tagliate a fatte, dopo averle liberate della buccia; quindi si mescolano al contenuto della padella aggiungendo il sale e il pepe necessari. A fuoco vivace ma non troppo, si mescolano le patate con una «schiumarola» di metallo, continuando a tagliuzzarle.
Appena il tutto è bene amalgamato e le patate si sono insaporite, passarne una metà circa in un piattone e schiacciare l'altra metà rimasta nella padella, a mo' di frittata.
Abbassare la fiamma e cospargere le patate di mozzarella tagliata a fettine sottili o a tocchettini minutissimi. Coprire poi per bene il tutto con le patate del piattone. Alzare la fiamma e muovere continuamente la padella perché il contenuto non si attacchi al fondo. Poi si copre la frittata col piattone e si capovolge la padella di colpo; rimasta così vuota, la si riempie di nuovo con la frittata capovolta e si lascia ancora insaporire. La frittata va subito servita calda a spicchi come se fosse una torta.
Volendo, la pancetta può essere sostituita da salsicce tagliate a tocchetti: dipende dai gusti.
Inoltre, al soffritto, se piace, si possono aggiungere un paio di cucchiaiate di salsa di pomodoro, tanto per dare alla frittata un delicato colore roseo.
Ma il sapore cambia di molto. In origine la frittata di patate era una pietanza della povera gente, ma si presentava naturalmente senza gli ingredienti della pancetta e della mozzarella. Quindi soltanto cipolla, un po' di strutto, patate, sale e pepe: tutto all'insegna della semplicità.
La scarpetta
Posso abbuffamme come un Epulone,
ma la scarpetta fatta in fonno ar piatto
me fa sentì er palato soddisfatto
coll'urtimo boccone.
Speramo che sta vita benedetta
er giorno che me ferma er callennario,
me lasci armeno er tempo necessario
pe famme la scarpetta.
Frutta

Il territorio laziale è da ritenersi un privilegio della natura, grazie alla vasta gamma di prodotti che ci permettono di manipolare tanti tanti cibi davvero invidiabili. Ma non basta. Anche la frutta ha un posto di rilievo e rende le terre della nostra regione tra le più doviziose per qualità, pregi e abbondanza: un vero angolo di paradiso terrestre. La prova della presenza di tanta grazia di Dio è possibile individuarla nelle numerose «sagre» gravitanti intorno alla Capitale e capaci di esaltare ogni anno l'abbondanza, la bontà, la genuinità di alimenti resi preziosissimi dall'alto grado di assimilabilità e dalla presenza di vitamine e di sostanze come l'azoto, Tacito citrico, l'acido malico, l'acido tartarico, l'acido tannico e le essenze profumate.
Entriamo subito nell'argomento e diamo la precedenza assoluta alla mela.
Mele cotte
Si prepara uno sciroppo con 120 g di zucchero per 4 hg di mele e 3 di di acqua. Si toglie il torsolo alle mele sbucciate che vanno poi tagliate in quattro parti o a fettine. Quando lo zucchero si è bene sciolto nell'acqua calda, si aggiungono le mele, si coprono e si fanno cuocere a fuoco lento per dieci-quindici minuti, finché la frutta non sia diventata ben morbida. Evitare il bollore, altrimenti la polpa si sfalda. Si colano le mele, mettendo da una parte lo sciroppo, e le stesse mele cotte si versano in un piatto di portata caldo. Quindi si fa bollire rapidamente lo sciroppo fino a quando comincia a rapprendersi e poi lo si versa sopra la frutta.
«Il Cocomeraro vicino alla Fontana di Trevi», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1830.
Pizza, prosciutto e fichi
Già che ci siamo commettiamo un altro peccato di gola. Ma sì, ne vale la pena. Permettiamoci perciò una piccola sosta e approfittiamone per uno spuntino semplice e ghiotto. Procuriamoci dal fornaio un bel pezzo di pizza calda calda e ben bene unta di olio buono, poi rimpinziamola con due o tre fette di ottimo prosciutto e con qualche fico maturo accuratamente privato della pelle. Uniamo al tutto un bicchiere del migliore «Frascati» e ripetiamo mentalmente i versi di Trilussa sulla felicità:
C'é un'ape che se posa
su un bottone de rosa:
lo succhia e se ne va...
Tutto sommato la Felicità
è una piccola cosa.
Fragole al limone
Per sei persone occorrono 400 g di fragole, 100 g di zucchero, succo di limone.
Innanzi tutto le fragole vanno scelte con cura e lavate delicatamente con acqua fredda. L'ideale sarebbe però l'uso del vino bianco, da gettar via subito dopo il lavaggio, affinché venga eliminata ogni traccia di terra.
Alle fragole poste in una coppa di vetro, va aggiunto poi lo zucchero e il succo di limone.
La coppa va chiusa nel frigorifero fino al momento di portarla in tavola.
Dolci

Crostata con le visciole
Ingredienti per una crostata di media grossezza: 300 g di farina, 150 g di zucchero, 150 g di burro, tre rossi d'uovo, la raschiatura di un limone.
Si impasta il tutto con sveltezza e poi lo si lascia riposare per circa mezz'ora in un angolo fresco. Si prepara poi la teglia e, untala di burro, vi si lascia cadere una spolverata di farina e successivamente se ne getta via il superfluo.
Si stende metà impasto sul fondo della teglia per formare uno strato sottile, poi si versa in maniera uniforme la confettura di visciole. Con un po' dell'altra metà della pasta si preparano tanti bastoncini, che vanno disposti sulla confettura in modo da disegnare una specie di grata. Da ultimo con la pasta avanzata si crea, per quanto è lunga la circonferenza, un bordone che si graffia con le punte di forchetta, passandoci poi sopra un po' di uovo sbattuto. Ultimata la preparazione, si affida per mezz'ora la teglia al calore moderato del forno. A cottura raggiunta si tira fuori la teglia e si lascia cadere sulla crostata una leggera pioggia di zucchero a velo.
Pizza di polenta con la ricotta
Messa in una terrina, la ricotta (300 g) va sciolta con uno «sgommarello» (ramaiolo) d'acqua tiepida e poi mescolata usando un cucchiaio di legno. Successivamente si aggiunge lo zucchero e, amalgamato ben bene il tutto, si versa un po' alla volta la farina di polenta con una mano, mentre con l'altra si continua a mescolare. Si deve ottenere un composto cremoso, né troppo denso, né troppo liquido. Se per caso, mescolando, si avverte un certo indurimento, è bene aggiungere ancora dell'acqua, sempre tiepida. A questo punto entra in scena 1/2 cucchiaio di cannella e una manciata di uva sultanina, lavata più volte e fatta rinvenire in acqua tiepida.
L'uvetta sultanina è preferibile allo zibibbo, perché non ha semi.
Unta poi la teglia, idonea allo scopo, con del burro o della margarina, vi versa il composto, cospargendo la superficie di pinoli e di qualche pezzettino di burro. Tre quarti d'ora di cottura nel forno a calore moderato e la pizza va tolta solo quando è bene asciutta e con sopra una crosta dorata. È un tipo di pizza questo che non supera l'altezza di un dito.
Pizza di polenta con lo zibibbo
In una piccola terrina si crea una specie di crema, mescolando 300 g di farina di polenta fina con 1/2 bicchiere abbondante di olio e acqua tiepida; poi si aggiungono: zucchero in polvere (100 g), un pizzico di sale e uno di cannella, zibibbo in abbondanza (va portato alle stesse condizioni della sultanina come nella precedente ricetta. Se poi gli si tolgono i semi, tanto meglio). Mescolando ben bene si ottiene un impasto pronto per essere versato in una teglia precedentemente unta con l'olio. Prima di infornare si sgocciola sulla polenta ancora dell'olio e quindi si lascia che il forno, caldo al punto giusto, ci dia dopo tre ore un'ottima pizza.
Castagnaccio
Miscelare in una scodella 2 hg e 1/2 di farina di castagne, un poco di sale e lentamente versarvi sopra l'acqua necessaria per ottenere un impasto né denso né eccessivamente liquido. Aggiungere un pugno di uva sultanina e uno di pinoli. Preparare una teglia precedentemente ben oleata e disporvi l'impasto che in altezza non deve superare 1 cm e 1/2. Bagnare con un filo di olio e infornare per un'ora.
Mostaccioli
Si prepara un impasto con tutti gli ingredienti per sei persone: 600 g di farina, tre pugni di noci sgusciate e tritate, 1 hg di miele, le chiare di due uova, pepe e cannella. Dopo una buona lavorazione l'impasto va steso sulla tavola, poi va tagliato in strisce rettangolari da disporre sulla piastra del forno per una cottura di venti minuti a fuoco moderato. I mostaccioli, tolti dal forno, saranno pronti per la loro funzione di «straccaganasse», non appena saranno freddi del tutto.
Tra i caratteristici dolci romani vanno ricordati anche i «turchetti», una specialità non troppo raffinata e neanche tanto igienica. La loro confezione avveniva con i residui di biscotterie, torte e paste non vendute. Tutto questo ben di Dio veniva lasciato seccare, poi ben pestato finiva passato al setaccio tanto da poterne ricavare una farina stantia e mezza ammuffita: era la base per creare i turchetti.
Disposti a fontana 500 g di farina, 250 g di zucchero, 50 g di mandorle sbucciate, 50 g di scorzetta di arancia candita, 100 g di residui secchi di pasticcerie avanzate, 7 g e 1/2 di bicarbonato di sodio, un uovo intero, ci si accinge a creare un impasto, aggiungendo un po' di latte. Si ottiene così una pasta di giusta consistenza, con cui si foggiano dei panini ovali e un po' schiacciati, tipo maritozzi. Messi in teglie unte e infarinate, i turchetti vanno cotti al forno a calore moderato.
Pangiallo
Si impastano 200 g di farina e 20 g di lievito da pane con l'acqua tiepida fino ad ottenere una pasta più morbida di quella del pane; quindi si aggiungono tutti gli altri ingredienti, tenendo conto che se lo zibibbo è troppo, non è necessario usarlo tutto. Ottenuta una specie di pagnotta, la si lascia per una notte in un luogo tiepido. Quindi, fatta una pastella con un po' di farina, un po' d'acqua, poco olio, un pizzico di spezie e un po' di zucchero, la si versa, non troppo colante, sul pangiallo, spalmandola ben bene. Fatto questo, il dolce va cotto in forno a temperatura piuttosto vivace. Nel pangiallo più raffinato era escluso il lievito, la sultanina sostituiva lo zibibbo e all'impasto si aggiungeva della pasta di mandorle sciolta con uova. Questo genere di pangiallo veniva poi ricoperto con «ghiaccia» al cioccolato. E Filippo Chiappini aggiunge: «Anticamente si copriva al di fuori con acqua di zafferano, e da ciò venne il nome di "pangiallo"».
Bocconotti di ricotta
Nel periodo del Carnevale tre dolci vanno per la maggiore a Roma: i bocconotti di ricotta, le castagnole e le frappe.
Ingredienti per la pasta frolla: 300 g di farina, due rossi d'uovo, un uovo intero, 150 g di zucchero, 150g di burro, un pizzico di cannella in polvere, 1/2 scorza di limone grattugiata.
Ingredienti per il ripieno: un cucchiaio di cannella in polvere, 1/2 cucchiaio di strutto o di burro, un cucchiaio di farina, 50 g di frutta candita mista, un uovo intero, tre rossi d'uovo, 100 g di zucchero, 500 g di ricotta.
Si prepara un composto di ricotta, zucchero, cannella e frutta candita, tagliata molto finemente. Si mescola accuratamente con un cucchiaio di legno, si aggiungono i tuorli d'uovo e si lascia riposare per circa mezz'ora possibilmente in un luogo fresco. Dopo aver preparato la pasta frolla e averla fatta riposare, si cosparge di farina una spianatoia sulla quale si dispone per ricavarne sfoglie sottili e di uguale misura. Si spolvera leggermente la farina su ambedue le sfoglie e si dispone una di queste in una teglia preventivamente unta, con dello strutto o del burro; poi si dispone sopra uno strato di ricotta, lasciando un margine dal bordo di circa 1/2 cm. Si copre il tutto con la seconda sfoglia, premendo ai bordi l'impasto. Si ricopre con un uovo sbattuto e qualche goccia d'acqua fredda e si mette al forno per circa mezz'ora, a fuoco basso. Non appena la pasta sarà ben dorata il dolce va tolto per farlo riposare qualche minuto. Quindi senza alternarne la forma si ricavano dei rettangoli, che una volta freddi vanno disposti in un piatto.
«Scena di Maschere nell'interno di un' Osteria di Roma nel tempo del Carnevale», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1831.
Castagnole alla romana
Infarinata una terrina piuttosto capace, vi si dispongono nel mezzo quattro uova, appena sbattute, un bicchiere di rhum, 100 g di burro fuso, la scorza di un limone grattugiata e una presa di sale. Dopo aver impastato ben bene tutti gli ingredienti, si ricavano delle palline grandi quanto una castagna e si immergono in una grossa padella colma di olio bollente. Non appena le palline si gonfiano, bisogna toglierle e metterle ad asciugare su un foglio di carta paglia. Quindi vanno cosparse di zucchero a velo mischiato a della cannella e sistemate in un piatto. Si servono anche fredde.
Frappe
Ingredienti: 100 g di zucchero, sale, 150 g di strutto, 100 g di zucchero a velo, due uova, 50 g di burro, 200 g di farina.
Si creano delle sfoglie piuttosto sottili, da cui ricavare delle strisce abbastanza larghe; le sfoglie si ottengono dall'impasto di farina, burro, uovo intero e un tuorlo, zucchero e una presa di sale.
Arrotolate le strisce su se stesse, si friggono nello strutto bollente e prima di servire, le frappe vanno disposte in un piatto da portata, cosparse di zucchero a velo.
Frittelle di pasta lievitata
Per la festa di S. Giuseppe, un'antichissima tradizione invitava i friggitori ad addobbare le botteghe con un gusto bizzarro e sfarzoso.
Anche i friggitori improvvisati occupavano le strade con le loro attrezzature per creare all'istante le frittelle di pasta lievitata.
Per la ricetta ci affidiamo al testo A Roma se magna così di Anna e Piero Serra:
Ingredienti: 500 g di farina, 25 g di lievito di birra, olio vergine d'oliva, zucchero.
In una insalatiera si mette la farina con il lievito e si aggiunge un po' alla volta dell'acqua secondo il potere assorbente della farina stessa. Si lavora la pasta per venti minuti fino a farla diventare vellutata ed elastica e capace di staccarsi tutta intera dell'insalatiera. Posta quindi in un angolo tiepido, si aspettano circa otto ore, necessarie alla lievitazione.
Raggiunto lo scopo, si staccano dalla pasta pezzi grossi quanto una noce e si allargano al massimo con la pressione delle dita, portandole al diametro di un piattino da caffè e poi si lasciano cadere nella padella colma di olio fumante. Le frittelle prima si restringono un po', poi si gonfiano come palloncini, diventando color d'oro.
Appena colorite e croccanti, si tolgono dall'olio, si sgocciolano e si servono «calle calle» e abbondantemente cosparse di zucchero.
Bignè di San Giuseppe
Arriva un'altra golosità, anche se la festa di San Giuseppe è diventata un ricordo. Si scalda bene in un pentolino un bicchiere d'acqua con 50 g di burro e un pizzico di sale. Al bollore si versano 100 g di farina, si mescola ben bene e si lascia cuocere per 5 minuti. Successivamente si fa raffreddare il composto, diventato denso, e vi si incorporano due uova, 2-3 cucchiai di zucchero e la scorza di un limone grattugiata. In una grossa padella poi, prima che l'olio cominci a fumare, si versa il composto a cucchiaiate non troppo grandi. Appena i bignè si gonfiano, vanno tolti dal fuoco, sgocciolati bene e disposti su un piatto coperto da un tovagliolo di carta; da ultimo si cospargono di zucchero vanigliato. Chi li preferisce con la crema, basta che la introduca con una siringa da pasticceria.
Maritozzi
Dosi per 12 maritozzi: si versano 50 g di farina in una tazza, si fa la fontana, si sbriciola in mezzo il lievito di birra (30 g) e lo si scioglie in poca acqua tiepida per impastarlo poi alla farina, unendo altra acqua tiepida sufficiente per avere una pasta morbida. Quindi si copre con un telo e si mette in luogo tiepido a lievitare.
Quando dopo una ventina di minuti circa il lievito sarà aumentato il doppio del suo volume, si versano sulla spianatoia 200 g di farina (i restanti 100 g serviranno per spolverizzare la spianatoia in caso di bisogno), si fa la fontana, si mette un pizzico di sale, olio d'oliva, il panetto lievitato e si impasta unendo acqua tiepida (poco alla volta) quanto occorre per avere una pasta né troppo soda né troppo molle. Si lavora con energia sulla spianatoia per una decina di minuti. Quando la pasta non si attaccherà più alle mani e alla spianatoia, vi si fanno amalgamare 50 g di zucchero; poi si fa con la pasta una palla, la si mette in una terrina infarinata, la si copre con un telo e la si pone in un luogo tiepido a lievitare. Si lava quindi l'uvetta, per metterla in una tazza coperta con acqua tiepida e per lasciarla ammorbidire per circa venti minuti. Intanto si imburra una placca da forno e quando la pasta avrà iniziato a gonfiarsi, la si versa sulla spianatoia leggermente infarinata e la si lavora un poco sgonfiandola; poi si uniscono 50 g di scorzetta d'arancia, o di cedro, candita, 20 g di pinoli e 70 g di uvetta passolina. Si lavora ancora la pasta per qualche minuto, poi la si arrotola sulla spianatoia, spolverizzandola, se necessario, di farina. Si deve ottenere un lungo bastone da tagliare in dodici pezzi tutti uguali. Si arrotolano uno alla volta per dar loro una forma ovale, poi si sistemano nella placca del forno appiattendoli un poco; quindi si coprono con un telo e si rimettono in un angolo tiepido a lievitare per la terza e ultima volta. A questo punto lo zucchero rimasto va fatto sciogliere in 2-3 cucchiaiate di acqua bollente. A lievitazione completa i maritozzi, ormai ben gonfi, vanno infilati nel forno caldissimo e vi si lasciano per circa sette minuti. Raggiunta la cottura, si pennellano con lo zucchero sciolto e si infilano di nuovo nel forno per un minuto, affinché lo zucchero si possa asciugare. I maritozzi sono pronti, ma per essere serviti hanno bisogno di raffreddarsi.
Pazientini quaresimali
Ingredienti: 300 g di zucchero in polvere, sei chiare d'uovo, 300 g di farina, un pizzico di vaniglia artificiale (vaniglina), qualche goccia di zucchero bruciato (caramello).
È un dolce tradizionale che veniva eseguito, come i maritozzi, esclusivamente durante la Quaresima e ancora adesso forse è reperibile in qualche pasticceria.
Si fa un impasto con tutti gli ingredienti e lo si lascia un po' riposare; poi si creano delle pallottole, si schiacciano come grossi lupini e si appoggiano su delle lastre da forno leggermente spalmate di cera vergine o, più semplicemente, di burro o strutto. Si lasciano riposare questi pazientini fino al giorno dopo, tenendoli in luogo caldo e l'indomani si cuociono in forno di moderato calore. È bene attendere un paio di giorni, prima di mangiarli. Questi pazientini si possono anche modellare a forma di lettere maiuscole, sia a mano, sia servendosi di speciali placche incavate, appositamente fabbricate per questo uso.
Pizza cresciuta
Ingredienti: 1 kg di farina, 8 uova intere, un cucchiaio di cannella, 300 g di ricotta, un pizzico di sale, la raschiatura di due limoni, 800 g di pasta da pane (lievitata).
Tutti gli ingredienti vanno messi nella farina disposta a fontana sopra una spianatoia.
Si sbattono le uova e si lavora il tutto con le mani fino a ottenere un impasto elastico e vellutato che va staccato tutto intero dalla tavola e versato fino alla metà di una o più teglie unte di strutto.
Da qui comincia la lievitazione che deve durare una decina di ore; poi si mettono la pizza o le pizze al forno per avviare la cottura con giusto calore.
Ma esiste un'altra ricetta: ce la offre Ada Boni.
Pizza di Pasqua
Ingredienti: 500 g di farina, 500 g di lievito di birra, 150 g di burro, 150 g di zucchero in polvere, 50 g di cannella, 10 g di sale, 6 uova intere, 150 g di scorzetta candita ritagliata in dadini.
Si lavora il tutto sulla tavola, piuttosto lungamente, per ottenere una pasta elastica, alla quale si aggiungono in ultimo i dadini canditi. Si unge di strutto una teglia grande e ci si pone la pasta lasciandola tutta la notte in luogo tiepido, affinché possa ben lievitare. L'indomani si cuoce in forno da fornaio per circa un'ora.
Una volta, dice Ada Boni, le massaie erano impegnate tutto il Venerdì Santo per preparare le pizze pasquali e farle trovare pronte per la benedizione del prete che, «appena sciorte le campane», portava una parola di pace di casa in casa.
Per un'occasione così gaia e profumata di primavera nella sala da pranzo il tavolo, pomposo nel candore della tovaglia di Fiandra, metteva in mostra le leccornie tradizionali di Pasqua, tra un mazzetto di violette, un ramoscello di mimosa e vari vasi tenuti nascosti durante la Quaresima per farvi germogliare al buio il grano, l'orzo, la lenticchia.
In mezzo a un tale giardinetto apparivano «l'ova toste» e un salame intero tipo «corallina», mentre al centro trionfava, tutta gonfia di sé, come una biocca impegnata a scaldare la covata, la pizza ricresciuta.
È giunto il momento del commiato.
Alziamo il calice colmo di vero «cannellino» e brindiamo alla vita e al buon gusto, a quello che la natura, mamma generosa, ci dona e che noi onoriamo con l'arte e l'amore, ingredienti indispensabili per qualunque manicaretto, qualunque intingolo degno di rispetto e di plauso.
La tavola imbandita ha la magia di riunire le persone per meglio affrontare i problemi della vita, in modo che ogni discussione possa trovare la via dell'accordo. A tavola si è padroni di una serenità divenuta ormai proverbiale, per la quale la cucina romana soltanto ha la capacità di creare i cibi più prelibati allo scopo di accalappiare e far sedere a mensa il successo più lusinghiero, magari
All'osteria dell'illusione
Me so' aggustato un piatto de bruschetta
davanti a un tavolino sganghenato
e un pensieraccio nero l' ho affogato
nell' urtima fojetta.
All'improvviso allora fo er pajaccio:
così m' illudo, mentre rido e canto,
che la felicità, na vorta tanto,
m' ha preso sottobraccio.
Buon appetito!
La cucina ebraico-romanesca
Il Portico d'Ottavia in un' incisione ottocentesca.
Introduzione
L'arte culinaria nella tradizione ebraica merita lode e considerazione per la semplicità con cui vengono preparati gustosi manicaretti che, in abbondanza, occupano un posto di rilievo non solo in seno alla cucina italiana in genere, ma soprattutto in quella romana, anche se in diverse ricette vengono esclusi a priori particolari ingredienti messi al bando dai precetti biblici.
Per chiarire meglio il concetto è utile sapere che tutte le leggi della cucina ebraica fanno capo al «casher», nome indicante, in sostanza, i cibi adatti ad essere consumati, senza cadere in errore contro il divieto. Quindi mangiare sì, ma nell'osservanza delle leggi dietetiche, tramandate di madre in figlia, secondo l'interpretazione dei sacri insegnamenti e delle sagge indicazioni dettate dalla Bibbia. Sta infatti alla base della preparazione di ogni cibo la norma religiosa, meditata, motivata e sempre giustificata, capace di mettere in guardia il buongustaio affinché, per un peccato di gola, non metta a repentaglio la propria anima di fronte alla maestà divina. Pertanto le regole ben precise da osservare per la scelta delle carni e dei pesci appartengono al sacro libro dell'Antico Testamento.
Gli ebrei in generale sono notoriamente ligi al dovere religioso. Tuttavia, pur non ammettendo al piacere del proprio palato un cibo che potrebbe essere causa di peccato, gli ebrei si abbandonano alla delizia di certe pietanze straordinariamente prelibate che nulla hanno da invidiare a quelle proposte da tutti gli altri ricettari della cucina nazionale e internazionale.
Quando la famiglia si riunisce intorno alla tavola, un alone di misticismo e di intimo godimento non è mai mancato nella tradizione ebraica, neanche nei momenti più difficili: gli ebrei sono sempre stati gelosi custodi del proprio millenario culto religioso. Così, ligi a quanto stabilito dalla stessa Bibbia, essi non permetteranno mai che nelle ricette della propria cucina entrino le carni di tutti gli animali considerati «impuri», ossia quelli, come precisa il Levitico al capitolo XI, che risultano privi di zoccolo e di unghia fessa e che non ruminano; ad essi fanno seguito gli uccelli rapaci, i pesci senza pinne e senza squame, i molluschi, i rettili, i crostacei e quasi tutti gli insetti.
Nell'osservanza di così chiare norme, sulla mensa ebraica non compaiono carni di maiale, né cotte né crude, di coniglio e di lepre e, spiega bene il Levitico, carni di cammello, di aquila, di nibbio, di falco, di corvo, di barbagianni, di gufo, di cigno, di anguilla, di seppie, di polipi, di scampi, di aragoste, di granchi, di ostriche... e l'elenco non si esaurisce qui.
Conseguentemente si può ben dire che la cucina romana, davanti a tali esclusioni (certi animali da zoo si escludono da soli), si impoverirebbe, costretta a rinunciare a certe pietanze in cui dominano proprio le carni degli animali elencati.
La cucina ebraica di ciò non si duole affatto, anzi, in barba al colesterolo, permette di degustare anche gli insaccati di carne di manzo, come la «bresaola», «copertina della pezza» con uno strato di grasso su un lato. Cosparsa abbondantemente di sale e di pepe, la carne per la bresaola viene lasciata seccare per qualche settimana. In tal modo si ottiene un cibo prelibato, una vera ghiottoneria che, tagliata a fette sottili, lascia pienamente appagato il buongusto e non solo quello degli ebrei. Con lo stesso procedimento si creano i salami di carne di manzo dei quali ci occuperemo più avanti.
Un precetto dell'Esodo (23,19) impone al popolo ebraico: «Non farai cuocere il capretto nel latte di sua madre». Da ciò deriva pertanto anche l'obbligo di non accostare le carni, qualunque esse siano, ai latticini nello stesso piatto. Quindi l'unico modo da seguire per dare cottura alle carni è quello dell'uso di olio, di grasso (d'oca e di manzo) e di margarina vegetale, di accertata composizione.
Nel Levitico (17,14) si legge ancora un divieto, lo stesso annunciato dall'Eterno a Mosè: «Non mangerete sangue d'alcuna specie di carne, poiché il sangue è la vita d'ogni carne; chiunque ne mangerà sarà sterminato». In base a questo fondamentale precetto gli ebrei non mangiano carni all'infuori di quelle macellate secondo particolari norme, che le rendono «casher», ossia adatte al consumo.
La mattazione del bovino, ad esempio, detta «shechità», avviene per mano del «schohet», il competente in materia che, sostenuti particolarissimi esami, gode della completa fiducia da parte delle autorità rabbiniche. Esse pertanto lo investono della loro autorizzazione per mattare. Allora l'animale, legato per le quattro zampe e capovolto a pancia in su, muore all'istante per un colpo netto e preciso infertogli alla gola con un coltello affilatissimo.
Di conseguenza il dissanguamento deve essere totale. Sarà cura poi della massaia, in obbedienza alle leggi bibliche, lasciare la carne a mollo nell'acqua fredda per venti minuti, spalmarla poi abbondantemente di sale e metterla a scolare per altri quaranta minuti, fino alla totale scomparsa del sangue. Un'altra particolare avvertenza è quella di togliere dalla coscia dell'animale il nervo sciatico, che non può essere mangiato, «in ricordo della percossa di Giacobbe nella lotta coli'Angelo».
Una peculiare attenzione merita il pane, la cui sovranità è un diritto pieno riconosciutogli sulle mense di ogni paese, a prescindere dal sentimento religioso. Sulla mensa ebraica il pane occupa un posto di rilievo e la sua forma e la sua sostanza sono legate ad un precetto, ad un ricordo, ad una celebrazione, ad una solennità, ad una preghiera.
Nella festività dello «Shabbàth», al centro della tavola, sul candore della tovaglia, la massaia ebrea non fa mancare mai due pani «Hallà», a forma di treccia, come serti nuziali. Infatti lo stesso sabato, secondo la simbologia ebraica, è paragonato alla sposa.
L'ingrediente fondamentale per preparare il pane «Hallà» deve essere obbligatoriamente la farina bianchissima che ricorda la manna fatta cadere dal Signore Iddio due volte sul deserto per saziare gli ebrei affamati. Ciò giustifica i due pani «Hallà» posti sulla mensa ebraica.
Una piccola cerimonia prima della cottura nel forno viene praticata dalla massaia bruciando un pezzetto di pasta lievitata e recitando parole di benedizione. Ciò serve per ricordare l'offerta dei pani un tempo praticata nel sacro tempio di Gerusalemme. Infine è bene sapere che l'impasto per il pane «Hallà» richiede, oltre la farina, anche zucchero, lievito di birra, sale, olio, semi di anice, rosso d'uovo e un po' d'acqua.
Sempre restando nel tema del pane, esso, durante le celebrazioni pasquali, viene sostituito dalla «mazzàh», ossia dal pane azzimo, composto soltanto di acqua e farina e perciò privo di lievito e di sale.
Con questo pane gli ebrei ricordano quello che i loro avi mangiarono nel deserto durante l'esodo dall'Egitto.
Poiché nel periodo delle festività pasquali non vengono usate paste alimentari, la loro sostituzione avviene con gli azzimi e con la stessa loro farina, per preparare moltissime minestre e altrettanti dolci a base di uova e mandorle.
Nello spirito della tradizione ebraica, durante le prime due sere di Pasqua, nella intimità delle case private si svolge solennemente il servizio liturgico detto «Seder», il cui significato vero e proprio è «ordine». Infatti il pranzo pasquale deve svolgersi seguendo scrupolosamente quanto stabilito da uno speciale cerimoniale. Sulla tavola, rivestita da una tovaglia candida, devono prendere posto: una «Haggadà» (racconto da leggere durante il pasto) per ogni commensale; un bicchiere, sempre per ogni commensale, e uno in più riservato al profeta Elia; vino in quantità tale che ciascuno ne possa bere almeno quattro bicchieri; aceto o acqua salata per intingervi il «Carpas» (sedano o prezzemolo o rape o patate); uova sode da mangiare all'inizio del pranzo; un cesto oppure un vassoio, fabbricato appositamente per contenere tutto il necessario alla cerimonia del «Seder», ossia tre azzime, l'una sopra all'altra, contenute rispettivamente nelle tre parti di cui si compone una speciale tovaglietta ricamata; un cosciotto di agnello o un pezzo di carne «pura» arrostita per ricordare il sacrificio pasquale; un uovo sodo; erbe amare (non sono d'obbligo); lattuga; «charoset» (impasto di vari ingredienti, appetitoso ma pesante da digerire); «Carpas». Tutto questo appartiene alla liturgia ebraica.
La Piazza Giudia in una incisione di Giuseppe Vasi
Ma i menù tradizionali che gli ebrei preparano per la prima e per la seconda sera di Pasqua sono di ben altro contenuto e ci riserviamo di parlarne più avanti.
Ciò che differenzia le varie tradizioni culinarie da quella ebraica sta nel fatto che le prime sono facilmente individuabili grazie alla loro posizione geografica e sociale. Gli ebrei costretti per secoli ad una vita errabonda per il mondo hanno cercato di mantenere viva una tradizione ben radicata nella sola religione.
Troppe vicissitudini e troppe persecuzioni non hanno permesso, durante i secoli, al popolo ebraico di raccogliere ricette chiare e precise da raccomandare a qualunque comunità.
La cucina ebraica quindi è una cucina prevalentemente familiare o, per dir meglio, casalinga, il cui ricettario è passato, soprattutto verbalmente, di generazione in generazione, rimanendo integro fino a quando, circa quaranta anni fa, non è stato sottoposto anch'esso a cambiamenti in ossequio all'evoluzione dei tempi.
In parte come schiavi, in parte come mercanti, gli ebrei emigrarono in Italia fin dall'epoca dell'antica Roma, riuscendo così ad avviare un processo di ambientamento nelle varie località italiane. In tal senso si può comprendere come a Roma, ad esempio, la cucina locale si avvicini molto a quella ebraica e viceversa.
Del resto è stato detto da più parti che anche la cucina romana è altamente considerata per la semplicità delle sue ricette, a carattere, per così dire, familiare.
La sostanziosa differenza sta nel mancato uso da parte degli ebrei di certi ingredienti che la loro religione, contrariamente alla nostra, rifiuta a priori.
Per il lavoro da noi svolto in queste pagine ci siamo valsi soprattutto di due testi validissimi: Cucina ebraica in Italia di Mira Sacerdoti e La cucina nella tradizione ebraica di Giuliana Ascoli Vitali-Norsa. Si tratta di due opere preziose che non solo raccolgono ricette chiare e precise nazionali e internazionali, ma sanno saggiamente guidare il lettore in un mondo pantagruelico ricco e simpatico, con l'aiuto molto efficace di piccole prose di gusto strettamente familiare che si affida spesso alle ali dei ricordi con un punto di giustificata nostalgia.
Delle tante ricette a nostra disposizione abbiamo scelto sia quelle dichiaratamente ebraico-romane, sia quelle che si suppongono tali in quanto molto vicine ai gusti della cucina romana. Non si dimentichi inoltre che la più antica comunità ebraica è proprio quella di Roma, dove gli ebrei si stabilirono nel II secolo a.C. aumentando via via di numero perché raggiunti nei secoli successivi da commercianti, rifugiati politici, schiavi.
"Lucerna con candelabro degli Ebrei" in una incisione di Giuseppe Vasi.
Sotto Tiberio si contavano, solo a Roma, circa 60.000 ebrei e nel 70 d.C, al tempo della distruzione di Gerusalemme, Tito ne portò in catene come schiavi alcune migliaia che dovettero adattarsi alle nuove esigenze, a un nuovo modus vivendi.
Scrive Mira Sacerdoti: «La cucina ebraica italiana si è sviluppata di pari passo alle varie cucine regionali, e si è allo stesso tempo arricchita, attraverso i secoli, in seguito alle successive migrazioni di ebrei. I riferimenti al cibo sono quasi del tutto assenti dai documenti storici, ma di tanto in tanto si possono trovare occasionali riferimenti alle abitudini alimentari.
E' molto probabile che la prevalenza dei sapori agrodolci in molti piatti di pesce, conosciuti ancora oggi con l'appellativo "alla ebraica" o "alla giudea", risalga alla tradizione culinaria degli ebrei nell'antica Roma. L'esistenza di una tradizione culinaria ebraica vecchia di 2000 anni è comunque pura speculazione».
Durante quindi tanti secoli è facile immaginare come le abitudini alimentari degli ebrei siano state investite un po' alla volta dalla necessità di modificarsi, ossia di adattarsi a quelle delle popolazioni con cui dovevano, o bene o male, convivere.
Ciò non toglie però che per la scelta e la preparazione delle vivande rimanessero scrupolosamente osservanti delle norme dettate dalla legge.
Sull'esempio dei testi più sopra citati, anche noi cominciamo la nostra trattazione culinaria dando la precedenza ai menù riservati alle festività ebraiche particolarmente sentite e sensibilmente vissute con schietta fede religiosa.
Le feste

Shabbat (il sabato)
Ecco il giorno più importante della settimana, un giorno quindi di tutto rispetto nell'arco del calendario ebraico, che nella simbologia rappresenta la sposa.
Il riposo deve obbligatoriamente essere completo e totale: neanche il fuoco può essere acceso, in quanto comporta un'azione che richiede un lavoro manuale.
E la cucina allora? È presto detto: la massaia deve avere cura di preparare i cibi da consumare il giorno della festa nel pomeriggio che la precede, ossia il venerdì pomeriggio, prima che il sole tramonti.
«Il pranzo del sabato», spiega Mira Sacerdoti, «è un pasto ricco e abbondante, e per tradizione include un primo piatto, due secondi piatti, uno di pesce e uno di carne, dolce, frutta e caffè».
Il rituale è semplice e suggestivo, per cui nasce naturale un'atmosfera ricca di religiosa intimità. Sulla tavola deve spiccare il candore della tovaglia che le posate e i piatti migliori, quelli delle grandi circostanze, arricchiscono di una sontuosa regalità.
Inoltre sulla stessa tavola devono troneggiare due lumi di candela, precedentemente accesi dalla madre di famiglia all'apparire delle prime stelle in cielo.
Il capofamiglia presiede di diritto la consumazione del pasto.
Per tutti i menù delle feste riportiamo le due versioni redatte rispettivamente da Mira Sacerdoti e da G. Ascoli Vitali-Norsa.
Primo menù:
«Tagliatelle alla "Bagna brusca", oppure Risotto di Shabbat; Sogliola marinata, oppure Sogliola in gelatina di nonna Rina; Vitello in gelatina, oppure Pollo; Torta di mandorle; Caffè».
Secondo menù:
«Tagliolini con la bagna brusca o Riso del Sabato; Sogliole marinate o Pesce di nonna Lea; Vitello del Sabato o Carne sott'olio; Caponata alla Giudia o Torzelli di spinaci; Pane Hallà; Torta di mandorle e spinaci».
Per le ricette riguardanti i piatti di questa e delle altre feste ebraiche rimandiamo il lettore alle pagine successive secondo l'ordine delle varie pietanze trattate.
Rosh Ha-Shanah (il Capodanno ebraico)
Tra settembre e ottobre, proprio all'inizio della stagione autunnale, cade il primo giorno di Tishri, in cui gli ebrei celebrano l'inizio del nuovo anno, ossia il Rosh Ha-Shanah, che segna anche l'apertura dei dieci giorni penitenziali che precedono il Kippur, o giorno dell'espiazione.
Il Capodanno ebraico dura due giorni e il primo pasto richiesto dall'usanza è quello delle fette di mela intinte nel miele, simbolo della speranza e del buon augurio per un anno felice apportatore di serenità e ricchezza. Il miele potrebbe essere sostituito anche dallo zucchero, mentre al posto delle fette di mela può essere consumata una fetta di pane Hallà. Le celebrazioni di Rosh Ha-Shanah cominciano, come per tutte le festività ebraiche, sempre al tramonto.
Primo menù: «Ricciolini, oppure Stroncatelli, oppure Calzonicchi; Triglia alla mosaica; Polpettone di tacchino; Zucca al forno; Verdure di stagione (senza aceto); Torta di mele, oppure Macedonia di banane e mele con rum».
Secondo menù: «Stroncatelli o Ricciolini o Calzonicchi; Triglie alla Mosaica; Polpettone di tacchino; Zucca gialla fritta o al forno o altre verdure di stagione (senza aceto); Dolce di miele o Sfratti o Mele e banane al rum».
Jom Kippur (giorno dell'espiazione o del perdono)
Nel calendario ebraico questa festa occupa un posto di riguardo e di tutta solennità con il compito di chiudere i dieci giorni di penitenza iniziati con il Rosh-Ha-Shanah. Pertanto è obbligatoria l'osservanza di un rigoroso digiuno, che si accompagna a lunghe meditazioni e a fervorose preghiere.
Il digiuno deve iniziare all'ora del tramonto del nono giorno del mese di Tishri, che cade a settembre, e si completa all'ora del tramonto del giorno successivo, ossia del giorno di Tishri, nel momento in cui viene suonato il corno di ariete o Shofar.
Le norme che regolano il digiuno sono ben precise e severe, per cui è vietato in modo assoluto toccare alcun cibo e alcun tipo di bevanda.
La vigilia poi di Jom Kippur l'usanza permette di servire un piatto abbondante, ma privo di spezie. Tuttavia il digiuno può venir rotto con un frugale spuntino a base di focaccia, unita a caffè o tè; un po' più tardi si può mettere mano a un pasto vero e proprio, ma leggero.
Primo menù: «Ricciolini in brodo; Triglie al forno con uvette e pinoli;Tacchino bollito, oppure Polpettone di tacchino, oppure Pizzette di cuore; Dictinobis o ciambelle di Jom Kippur e zabaione, oppure Bruscatella di Kippur; Tè o Caffè». Il secondo menù non si discosta di molto dal precedente: «Tagliolini o Ricciolini in brodo; Triglie con uvette e pinoli; Tacchino lesso o Polpettone di tacchino; Pizzette al marsala o Pizzette di cuore; Zucca gialla, Melanzane sott'aceto; Dictinobis e Zabaione; Bruscatella di Kippur o Ciambelle di Kippur (per rompere il digiuno)».
Sukkot (Festa del raccolto e delle capanne)
Per un'intera settimana il popolo ebraico celebra la festa del raccolto, partendo dalla sera del quindicesimo giorno e completandosi al tramonto del ventiduesimo giorno del mese di Tishri, periodo di ottobre in cui si opera il raccolto nell'emisfero settentrionale. Il ciclo delle solennità di Tishri si chiude con le feste di Sheminì Azeret e Simhat Torah, ossia la celebrazione della legge.
Giuliana Ascoli Vitali-Norsa così descrive la festa di Sukkot: «In giardino o nella terrazza di casa si usa costruire la capanna che deve avere il tetto di frasche e viene decorata con festoni e frutta di stagione: mele, pere, melograne, peperoni, melanzane, pannocchie di granturco. Durante i sette giorni di Sukkot si usa vivere il più possibile nella capanna e ricevervi gli amici. Si fanno cibi ripieni, dolci tipo strudel e dolci di frutta. In Italia non mancano mai nella Succà il tradizionale Bollo e le giuggiole.
Nel giorno di Simbà Torà si usano fare involtini di carne e di riso in foglie di vite, in ricordo dei vigneti della Giudea; in mancanza di queste si usano foglie di cavolo».
Primo menù: «Minestrone, oppure Pasticcio di barbabietole; Ginetti, oppure Bollo-o-bollo».
Secondo menù: «Minestrone di verdure o Pasticcio di bietole; Cefali in umido; Jabrac o Cavolo ripieno; Ginetti o Dolce di tagliatelle; Bollo».
Simhat Torah (La celebrazione della legge)
Questa festa è presentata da Mira Sacerdoti così come noi la riportiamo: «La festa di Simhat Torah viene celebrata il ventitreesimo giorno del mese di Tishri» (ottobre).
Nella sinagoga vengono letti, un capitolo alla volta, tutti i cinque libri del Pentateuco.
A conclusione della celebrazione della legge, la lettura dell'ultimo Parashah, o capitolo della legge, viene subito seguita dalla lettura del primo capitolo, come simbolo di un ciclo che continua ininterrotto.
I cinque volumi del Pentateuco vengono portati in processione attraverso la sinagoga, e adulti e bambini partecipano alla celebrazione cantando inni e benedicendo i libri della legge.
Nel giorno di Simhat Torah, che è anche l'ultimo giorno di Sukkot, si usa servire un piatto preparato con foglie di vite ripiene di carne e riso, per ricordare i vigneti della Giudea.
Dove non sia possibile trovare delle foglie di vite, si usano al loro posto le foglie di cavolo. Menù: «Foglie di vite ripiene».
Hanukkah (Festa delle luci)
Per la celebrazione di questa festa sono richiesti otto giorni e si parte dalla vigilia del venticinquesimo giorno di Kislev (novembre-dicembre). La festa ha tutta una sua importanza particolare in quanto serve a commemorare l'eroica vittoria riportata dai Maccabei su Antioco nel 165 a.C. e a ricordare il miracolo dell'olio. Terminata la battaglia i Maccabei si misero al lavoro di ripulitura del tempio per effettuarne una nuova consacrazione, dopo le copiose rovine sopportate; nonostante l'affannosa ricerca di un po' d'olio sufficiente a tenere accesa la lampada sacra almeno per un giorno, i Maccabei non trovarono nulla. Tuttavia i loro sforzi furono premiati con un miracolo: la lampada continuò misteriosamente a bruciare per altri otto giorni.
Per dare inizio alla festa delle luci, si accende la prima lampada del candelabro a nove braccia, chiamato Hanukkah, intorno al quale si raccoglie l'intera famiglia elevando il canto degli inni tradizionali propri di questa festa. Ed è in questo momento così suggestivo che il più piccolo della famiglia accende la prima candela (o la prima lampada se si tratta di una lampada ad olio).
La cerimonia si ripete ogni sera successiva, così per otto sere vengono accese tutte le candele. La nona candela, chiamata Shammash, ossia servitore della sinagoga, viene usata soltanto per accendere tutte le altre. Durante la settimana di Hanukkah si consumano dolci e cibi fritti nell'olio. Quindi è evidente che il ricordo del miracolo è vivo sia per Fuso delle lampade sia per quello delle ricette di cucina.
Piazza di Pescaria: alcuni banchi del mercato del pesce davanti all'arco del Portico d'Ottavia, in una incisione di Giuseppe Vasi.
Primo menù: «Salame di spinaci, oppure Risotto con le uvette; Pollo fritto Hanukkah, oppure Brasato di lingua di vitello; Melanzane alla giudia; Precipizi».
Secondo menù: «Ravioli di spinaci o Riso con le uvette; Impannate; Pollo fritto di Hanukkah o Carne alla Shimshon; Melanzane alla giudia; Precipizi».
Shabbat Beshalah (Il miracolo del Mar Rosso)
Si tratta di una festa celebrativa che cade sempre di sabato, durante il quale viene letto il capitolo della Legge, in ricordo del miracolo del Mar Rosso: «E l'Eterno disse a Mosè: "Stendi la tua mano sul mare e le acque ritorneranno sugli Egiziani, sui loro carri e sui loro cavalieri"». Si trattava del momento della fuga degli ebrei dalla schiavitù d'Egitto. Al cenno di Mosè le acque del mare si aprirono e il passaggio dei fuggiaschi avvenne sulla terra asciutta. «Sul fare della mattina il mare riprese la sua forza e gli Egiziani, fuggendo, gli andavano incontro; e l'Eterno precipitò gli Egiziani in mezzo al mare. Le acque tornarono e coprirono i carri, i cavalieri, tutto l'esercito di Faraone ch'erano entrati nel mare dietro agl'Israeliti; e non ne scampò neppur uno. Ma i figliuoli d'Israele camminarono sull'asciutto in mezzo al mare, e le acque formavano come un muro alla loro destra e alla loro sinistra».
Gli ebrei italiani sono forse gli unici che preparano in occasione di questa festa una torta di pasta tutta speciale chiamata «Ruota del Faraone», perché la sua forma ricorda le ruote dei carri del Faraone. La sua preparazione comporta l'impiego di spaghetti o tagliatelle, per simboleggiare le onde del Mar Rosso; di uvette e di pezzetti di salame d'oca per rappresentare le teste degli egiziani galleggianti nelle acque marine. Si tratta di una simbologia piuttosto macabra, ma indiscutibilmente originale.
Tu Bi-Shavat (Festa del capodanno degli alberi)
La festa prende vita nel quindicesimo giorno di Shevat (febbraio), quando in Israele si avverte il risveglio della vita degli alberi attraverso l'apparizione delle prime gemme. Un invito particolare viene rivolto ai ragazzi perché si dedichino a piantare alberi ricevendo in cambio ceste di frutta di stagione o frutta secca. È un soffio di primavera che si sofferma nelle scuole e nelle stanze dei fanciulli tramite le decorazioni con rami di alberi da frutta stracarichi di gemme, come i rami di pesco in fiore.
Primo menù: «Tortellini, oppure Zuppa di riso e pollo; Paté di fegato d'oca; Sogliola marinata, oppure Fagiolini; Cavolo all'agrodolce; Torta di mele». Secondo menù: «Tortellini o Paté di fegato; Sogliole marinate; Crema di pollo e riso o Hamin di fagioli; Cavolo verza in agrodolce; Strudel».
Purim (Festa delle sorti)
E una festa che cade il 14 di Adar (marzo) e che si apre con la lettura del libro di Ester, la regina che insieme a suo zio Mardocheo riuscì a sventare il massacro di Amman, ministro del re persiano Serse, che voleva a tutti i costi portare allo sterminio l'intero popolo ebraico presente in Persia. Commenta G. Ascoli Vitali-Norsa: «Essendo una delle poche volte che una tragica vicenda del popolo ebraico si è conclusa felicemente, ancor oggi noi festeggiamo questo avvenimento sotto l'insegna dell'allegria. E festa dei grandi e dei bambini, è d'uso fare mascherate, recite, doni a grandi e piccini. Si beve vino e si mangiano dolci di ogni genere. Tipico dolce che si ritrova in tutte le tradizioni dei vari paesi sono le Orecchie di Amman. In Italia si fanno moltissimi dolci a base di mandorle».
La festa di Purim è l'unica occasione dell'anno in cui si ha il permesso di bere a volontà senza limiti. Si ha l'impressione di vivere la stessa atmosfera del martedì grasso, ultimo giorno di carnevale e vigilia dell'inizio della Quaresima cristiana.
Inoltre regna la generosità per cui dolci e frutta vengono regalati abbondantemente fino ad esaurimento completo. Qualcuno è convinto che tale usanza è necessaria per far pulizia totale della casa, poiché il giorno dopo prende inizio il periodo pasquale che non permette la presenza tra le mura domestiche di neanche un granello di farina. Primo menù: «Salame di spinaci; Polpettone di tacchino, oppure Manzo marinato; Spinaci fritti; Buricche». Secondo menù: «Ravioli di spinaci o Sfoglietti in grasso; Polpettone di tacchino e vitello e Manzo salato; Testine di spinaci; Buricche; Orecchie di Amman, Pignoccate, Marzapane, Paste bianche di Purim, Strufoli, ecc.».
Pesah (Pasqua)
Per ricordare la fuga dalla schiavitù d'Egitto gli Ebrei celebrano la Pasqua dal giorno 15 di Nissan (fine di marzo o inizio d'aprile) e dura sette giorni. «L'evento», spiega M. Sacerdoti, «viene celebrato con una cena, che in Israele ha luogo la sera della vigilia del primo giorno di Pesah. Durante la cena viene letto il testo dell'Aggadah, che significa narrazione. Questo testo faceva originariamente parte di un libro di preghiere, ma a partire dall'XI e XII secolo venne copiato e trascritto separatamente. Restano ancora oggi molti manoscritti di questo testo, finemente miniati, che rappresentano uno dei tesori dell'arte sacra ebraica. Uno di questi, chiamato l'Aggadah di Serajevo perché conservato nel museo ebraico di Serajevo, è probabilmente originario della Spagna e risale al XIII secolo; un commento scritto a mano in margine testimonia della presenza in Italia del manoscritto... Di questo testo esistono anche antiche edizioni stampate, fra cui quella di Mantova del 1560 e quella di Venezia del 1629».
Una cura particolare viene richiesta dalla casa che prima della festa deve essere sottoposta ad una pulizia accuratissima che deve eliminare anche le più piccole briciole di cibo. I resti di pane vanno bruciati con molta attenzione e l'operazione va accompagnata dalla recita di una preghiera. Perfino le stoviglie, piatti, posate, bicchieri, richiedono un lavaggio speciale, secondo le norme di un rituale prescritto. Nel corso dei sette giorni di Pesah non è permesso consumare cibo lievitato, per cui lo stesso pane è quello azzimo composto di sola farina e di sola acqua; quindi niente lievito e niente sale.
Si consumano invece moltissime minestre e molti dolci a base di uova, mandorle e pane azzimo grattugiato. Presso alcune comunità ebraiche italiane si segue l'uso della farina di grano turco in sostituzione del pane grattugiato. Bisogna però evitare qualunque forma di fermentazione, per cui alla farina vanno aggiunte soltanto le uova con l'esclusione dell'acqua. Formato il composto, lo si introduce immediatamente nel forno.
Le prime due sere di Pesah vengono rese solenni con la cerimonia del «Seder», parola che significa «ordine»; e infatti la cena pasquale richiede esattamente ordine e un rituale ben preciso. Intorno alla tavola prendono posto tutti i componenti della famiglia e gli amici invitati per ascoltare la lettura dell'Aggadah, la storia dell'esodo dall'Egitto.
Ogni commensale prende parte viva alla narrazione, specialmente i bambini che in questa occasione hanno il permesso, anzi l'incitamento a rivolgere domande e a formulare commenti. Dopo la lettura si dà inizio alla consumazione del pasto tradizionale.
La tavola pasquale deve essere ricoperta da una tovaglia candida e le posate da usare devono essere le migliori. Inoltre non devono mancare particolari oggetti previsti dal rituale:
- uno speciale tovagliolo ripiegato tre volte e con sopra tre azzime, a ricordo del pane non lievitato;
- un bicchiere di vino per il profeta Elia;
- il vassoio pasquale contenente alcuni cibi simbolici durante la lettura dell'Aggadah;
- una copia dell'Aggadah per ogni commensale;
- vino in quantità sufficiente per offrire la possibilità ad ognuno di berne almeno quattro bicchieri e per permettere a ciascun bambino quattro sorsate;
- uova sode servite in acqua salata o aceto per dare inizio alla cena;
- terrine con l'acqua per pulire le dita.
È interessante sapere che tanto la tovaglia quanto i tovaglioli devono essere di stoffa raffinata recante fini ricami; la stessa cosa vale per il tovagliolo degli azzimi. Questa particolare biancheria va gelosamente conservata insieme al vassoio per essere tramandata di generazione in generazione, con l'affidamento da parte della madre alla figlia primogenita o alla moglie del figlio primogenito.
In quanto al vassoio pasquale il suo posto riservato è accanto al capofamiglia, cui spetta il diritto di dirigere la completa cerimonia. Il vassoio deve contenere i cibi simboleggianti la schiavitù d'Egitto:
- una zampa d'agnello arrostito in ricordo dell'agnello sacrificale;
- un uovo sodo bruciacchiato sulla fiamma e immerso nell'acqua salata: suo compito è quello di ricordare la sofferenza della schiavitù;
- haroset: composto di noci, mele grattugiate e miele per ricordare le pietre e la malta che veniva caricata sulle spalle degli schiavi;
- carpasi una foglia di sedano, un rametto di prezzemolo e altre verdure intinte nell'acqua salata. Il tutto simboleggia le lacrime versate durante la schiavitù;
- maror: radici ed erbe amare che servono a ricordare l'indescrivibile amarezza che si prova con la perdita della libertà.
Primo menù della prima cena pasquale: «Uova sode in acqua salata; Azzime in brodo di pollo con piselli, oppure Pane azzimo in brodo di pollo; Triglia alla mosaica; Polpettone di tacchino; Carciofi e spinaci; Scodelline con amaretti, oppure Zuccherini». Primo menù della seconda cena pasquale: «Uova sode in acqua salata; Dajenu, oppure Scacchi; Petti di pollo e d'oca bolliti, oppure Lingua di vitello con olive; Piselli e carciofi». Secondo menù della prima cena pasquale: «Sfoglietti in brodo con piselli freschi o Palline di azzime in brodo; Triglie alla mosaica; Polpettone di tacchino e salame d'oca; Carciofi e spinaci; Scodelline con amaretti o zuccherini». Secondo menù della seconda cena pasquale: «Dajenu o Scacchi; Pollo lesso e Petticini di oca o Lingua salmistrata; Guscetti di piselli e carciofi; Torta di mandorle o Frittata di azzime o Torta di mandorle e spinaci».
Shavuoth (Festa delle primizie)
Shavuoth in ebraico significa «settimane» ed è una festa che si celebra sette settimane dopo la Pasqua, nel sesto giorno del mese di Siwan (giugno); per questo la festa è anche chiamata Pentecoste e invita al ringraziamento per le leggi ricevute da Mosè sul monte Sinai.
Inoltre la festa è detta delle primizie perché viene celebrata nel periodo dei primi raccolti, tanto che in questo giorno il popolo osservava la tradizione di recarsi processionalmente al Tempio per offrire a Dio i primi frutti dell'anno. È l'occasione in cui la stessa sinagoga viene abbellita con decorazioni di fiori, soprattutto rose, e le bambine, secondo un'altra tradizione di recente sviluppo, celebrano in questo giorno il loro Bat Mizwah, ossia la loro Maggiorità religiosa.
È d'uso in alcune comunità ebraiche italiane non mangiare nel giorno di Shavuoth carne e non bere vino. Dato però che il latte è ritenuto simbolo della primavera, è possibile consumarne sia come bevanda sia come latticini.
Primo menù: «Gnocchi alla romana, oppure Spinaci al forno, oppure Pizza vegetariana; Finocchi; Biscotti di Shavuoth, oppure Torta di cioccolato, oppure Marzapane di zia Ulda». Secondo menù: «Gnocchi alla romana o Rotolo di spinaci e ricotta; Torta di Shavuoth o Pizza ebraica; Finocchi alla parmigiana; Gallette di Shavuoth; Torta di cioccolato Susanna; Monte Sinai con Uova filate».
Primi piatti

La pasta all'uovo
Ecco un qualcosa che, tanto per cominciare, molto facilmente riesce ad accomunare noi cristiani agli ebrei, o, per meglio dire, noi romani cristiani ai romani ebrei: le fettuccine.
Esse sono state forse lo strumento ideale per accalappiare i fratelli ebrei perché adottassero Fuso della pasta all'uovo per un nuovo godimento del loro buongusto. Quindi non c'è stato bisogno di effettuare sostituzioni di ingredienti e neanche insegnamenti particolari per impastare e tagliare, nonché per cuocere. Pertanto è proprio il caso di dire: viva la pasta all'uovo, regina dei primi piatti in modo assoluto ed inequivocabile.
Gli ingredienti richiesti per un commensale sono: un uovo leggermente sbattuto; 150 g di farina bianca; un cucchiaio di acqua; una presa di sale.
Con la farina versata sulla tavola si forma al centro un vuoto, dove si aggiungono le uova, l'acqua e il sale e subito si comincia a lavorare l'impasto fino a raggiungere la forma di una palla morbida e compatta. Poi lo si lascia riposare avvolto in un tovagliolo ben pulito, a temperatura ambiente.
Trascorsa circa mezz'ora si riprende l'impasto e con un mattarello lo si stende in modo da ottenere la sfoglia che, lasciata asciugare qualche minuto, si cosparge di farina molto leggermente; poi una volta arrotolata su se stessa la si taglia come si desidera: a fettuccine, a tagliolini, a quadratini, a dischetti per i tortellini, a grossi quadrati per i cannelloni...
Tagliolini freddi alla ebraica
Osserva Mira Sacerdoti che questo «è il tipo di piatto che si può preparare in anticipo e tenere in frigorifero anche per parecchie ore». Per sei persone occorre creare un impasto con sei uova e 600 g di farina. Per la salsa si deve mettere in un tegame un decilitro abbondante di olio, due spicchi di aglio e mezzo peperoncino piccante (oppure un po' di pepe).
Appena Taglio si è indorato, va tolto e si aggiungono i pomodori pelati ridotti a pezzetti e nella quantità di un chilogrammo.
Condito il tutto con una presa di sale, si lascia avviare la cottura a fuoco vivace. Dopo 10-15 minuti il sugo dovrebbe essere pronto per accogliere un ciuffo di prezzemolo tritato.
Lessati intanto in acqua salata i tagliolini e scolati, si versano in una terrina per condirli con la salsa mescolandoli delicatamente. Per assaporarli bene vanno mangiati freddi.
Calzonicchi
Si tratta di una ricetta romana meglio conosciuta come «Tortellini di cervello». Seguiamo i consigli di G. Ascoli Vitali-Norsa: «Per sei persone occorrono quattro uova, 500 g di farina, 400 g di cervello, un uovo, sale e pepe. Con la farina e le 4 uova e, se necessario, uno o due cucchiai di acqua, preparate una sfoglia che stenderete molto sottile con il mattarello. Ritagliatela a quadretti di circa 3 cm di lato.
Precedentemente avrete così preparato il ripieno: prelessate il cervello, insaporitelo con un po' di olio e cipolla, salate e pepate; schiacciatelo con la forchetta ed incorporatevi un uovo.
Con questo ripieno riempite i calzonicchi che chiuderete a metà in modo da avere dei triangolini che cuocerete nel brodo.
Sono ottimi anche asciutti, conditi con sugo di carne».
Tagliatelle Shabbat Beshalah
Con 400 g di farina e quattro uova si preparano le tagliatelle, senza usare acqua per l'impasto. Appena pronte si lessano in acqua salata, si scolano e si mescolano a quattro cucchiaiate di sugo di arrosto o a due cucchiai di grasso d'oca. In una terrina a parte si mescolano 100 g di salame d'oca, tagliato a pezzetti, con 100 g di uva sultanina e 100 g di pinoli.
In una teglia unta di olio si fa uno strato di tagliatelle e lo si copre con uno strato di composto; poi si ripete con un altro strato di tagliatelle e un altro pure di composto e così via. La teglia quindi va messa al forno portato ad un calore di 180 gradi: la pasta deve raggiungere un bel colore dorato.
Chi non accetta il sapore dolciastro mischiato a quello salato, può fare uso del solo sugo di arrosto e del salame.
Secondo un'altra versione della ricetta, invece di mettere la pasta nel forno, la si può fare indorare anche rosolandola in una padella di ferro contenente un po' d'olio. È importante avere la pazienza di mescolare senza mai interrompere. In una nota aggiunta da G. Ascoli Vitali-Norsa si legge testualmente: «Se non avete grasso d'oca o sugo d'arrosto basterà far cuocere dell'olio con salvia e rosmarino per 10-15 minuti».

Il risotto
Risotto di Shabbat (ossia del sabato) o riso Pilaf
Ecco un piatto molto comune tanto alla cucina italiana quanto a quella ebraico-italiana, per la quale Mira Sacerdoti offre preziosi consigli.
«Quasi tutte le regioni d'Italia», dice, «e quasi tutti i cuochi italiani, hanno una preferenza o una ricetta per un tipo particolare di risotto, e ne esistono di conseguenza infinite variazioni. Il riso è l'unico ingrediente comune a tutte le ricette, ma esistono anche diversi tipi di riso con cui si può preparare questo piatto. Per ottenere un buon risotto cremoso, denso e morbido è necessario cuocerlo in modo da fargli raggiungere l'assorbimento di tutti gli ingredienti che gli vengono aggiunti».
Il risotto di Shabbat, detto anche Pilaf, in obbedienza alla tradizione veniva preparato il venerdì e lasciato nel forno a una temperatura che gli permettesse di rimanere caldo, senza diventare colloso.
Tale metodo però difficilmente ottiene il risultato desiderato, perché il riso scuoce e pur restando saporitissimo si trasforma, dopo una notte, in un vero e proprio ammasso di colla.
E allora non rimane altra scelta all'infuori di quella di dedicare al risotto un altro giorno della settimana, libero dalle norme religiose.
Rimane tuttavia intatto il nome di risotto di Shabbat i cui ingredienti sono, per sei persone: 500 g di riso; un litro di brodo di pollo o di manzo (caldo); 1/2 bicchiere di olio, oppure di grasso d'oca; un pizzico di zafferano; sale e pepe. Appena scaldato l'olio in una casseruola, si aggiunge il riso che va mescolato fino al raggiungimento di una bella doratura.
A questo punto si versa il brodo bollente insieme al sale, al pepe e allo zafferano.
Si mescola ancora, si copre bene la casseruola con un coperchio e la si infila nel forno portato ad un calore di 180 gradi, per farcela rimanere circa 20 minuti.
Un secondo sistema di cottura suggerisce di seguire quanto è stato indicato nella precedente ricetta subito all'inizio; poi, appena ottenuto il riso ben dorato, invita ad aggiungere il brodo bollente un po' alla volta e a mescolare di continuo senza permettere all'ebollizione di perdere il ritmo avviato.
A metà cottura va aggiunto lo zafferano e il sale. Appena il riso è al dente, si spegne la fiamma, si copre il recipiente e si concede al riso quel tanto di riposo necessario affinché assorba fino in fondo il brodo in cui si trova.
Questo tipo di risotto va anche servito in compagnia di funghi, piselli o altre verdure di stagione.
Risotto alle melanzane
Ecco un piatto caratteristico romano che richiede i seguenti ingredienti per 6-8 commensali: 600 g di riso; 600 g di melanzane; uno spicchio d'aglio; un ciuffo di prezzemolo; un decilitro di olio.
Innanzi tutto si tagliano le melanzane a pezzetti per farle poi soffriggere in padella con olio, aglio, prezzemolo, sale e pepe.
Si raccomanda di mescolare spesso con un cucchiaio di legno in modo che le melanzane insaporiscano bene e raggiungano una perfetta cottura.
Quindi si aggiunge un po' di brodo, portandolo ad ebollizione e successivamente si versa il riso, lasciandolo insaporire per circa 10-12 minuti.
Dopo di che si versa il brodo rimasto e si aspetta che il riso cuocia del tutto.
E ovvio che ogni tanto occorre mescolare per evitare che le melanzane si attacchino al fondo della pentola.
«La Colazione dei fanciulli», particolare di un'incisione di Bartolomeo Pinelli.

La minestra
Minestra spezzata
Per sei persone occorrono: 500 g di pasta: spaghetti rotti, zite, o pasta corta; 500 g di pomodori pelati; prezzemolo; uno spicchio d'aglio; poca cipolla; 1/2 bicchiere di olio.
Si fa soffriggere in una pentola, a bagno nell'olio, la cipolla tritata insieme all'aglio intero che poi va tolto prima di aggiungere i pomodori dello stesso peso della pasta.
Dopo una cottura a fuoco lento di circa 20 minuti, si versa la pasta e un po' di acqua bollente. La minestra deve risultare brodosa ma non troppo. Prima di toglierla dal fornello si aggiunge il prezzemolo tritato e il pepe.
Boccette in brodo
Secondo la ricetta romana si prepara con le ossa di manzo e gli odori un brodo che appena pronto va passato. Intanto si macina due volte la carne cruda di fracosta magra (600 g), poi la si condisce con sale e pepe per fame tante polpettine da gettare nel brodo bollente, che deve essere lasciato bollire per circa un'ora e mezza. Allo scopo di rendere le boccette di carne più morbide e più saporite si può introdurre in ciascuna di esse un quadratino di grasso.
Si ottiene così una minestra-pietanza bene accolta dai commensali buongustai.
Minestra di ceci con i pennerelli
Questa ricetta risale ai tempi dell'antica Roma e i «pennerelli» non sono altro che dei piccoli ritagli di carne usati per preparare un tipo di salame obbediente alle regole della cucina ebraica. I «pennerelli» che avanzano vengono usati per arricchire il gustosissimo brodo della minestra di ceci. Per soddisfare sei commensali occorrono 500g di ceri, messi a bagno la sera prima; 400 g di «pennerelli» o di carne di vitellone; un cucchiaio di concentrato di pomodoro; due cucchiai di olio d'oliva, una cipolla, sale e pepe.
Tutti gli ingredienti vanno messi in una casseruola dove si aggiunge acqua sufficiente per coprire il tutto. Raggiunta l'ebollizione si regola la fiamma per ottenere una cottura lenta della durata di tre ore. La massaia deve stare accorta affinché il brodo non si asciughi troppo; in caso di necessità va aggiunta dell'acqua bollente. Tanto i ceci che la carne devono risultare stracotti e il brodo molto denso.
Seguendo le istruzioni di G. Ascoli Vitali-Norsa, siamo in grado di riportare tre ricette se non proprio romane del tutto, sicuramente di stampo italiano.
Si tratta delle ricette di altrettante minestre a base di lenticchie, un legume molto apprezzato anche a Roma che addirittura lo indica con il dovuto rispetto come elemento naturale capace di portare fortuna per un anno intero se consumato subito dopo l'entrata ufficiale del nuovo anno.
Minestra di lenticchie di Esaù
Sappiamo tutti quanto le lenticchie siano state amate da Esaù che, tornato dal lavoro dei campi oltremodo affamato, trovò il fratello Giacobbe alle prese con un piatto colmo dello squisito legume. Esaù ne chiese un po' offrendo in cambio qualunque cosa. Il fratello allora gli chiese la primogenitura e fu immediatamente accontentato.
Per essere elemento base di un baratto così importante, la pietanza può definirsi senza dubbio molto gustosa. Eccone la ricetta. Per sei persone occorrono 450 g di lenticchie; sei cipolle (se piacciono); una tazza di salsa di pomodoro; una carota; sedano; prezzemolo; 450 g di carne macinata; 100 g di grasso.
Le lenticchie prima di essere usate hanno bisogno di un buon lavaggio e devono essere lasciate a mollo per qualche ora.
Poi vanno messe in un tegame piuttosto grande con la salsa, alquanto liquida, di pomodoro, le cipolle e le altre verdure tagliate molto sottili. Se necessaria si aggiunge un po' d'acqua.
Intanto con la metà della carne macinata si creano delle pallottoline condite con sale e pepe.
Quindi in una padella si fa sciogliere il grasso per mettervi a cuocere la carne rimasta e successivamente per friggervi le polpettine. Quando le lenticchie sono prossime alla cottura, si versa nel loro tegame tutto il contenuto della padella, compreso il grasso. Il piatto sarà pronto per essere servito dopo circa un'ora e mezza.
Minestra di pasta e lenticchie
La ricetta di questo primo piatto ci viene consigliata da G. Ascoli Vitali-Norsa e noi la riportiamo integralmente: «Per 8 persone occorrono 500 g di lenticchie ammollate, 300 g di pasta a piacere, 6 cucchiai di olio, 6 filetti di acciuga, un mazzetto di rosmarino legato con filo bianco, 3 spicchi d'aglio schiacciati.
Le lenticchie ammollate vanno messe in un tegame di coccio, ricoperte di abbondante acqua fredda. Si aggiunge il rosmarino e il sale e si avvia la cottura a fuoco moderato. In un pentolino a parte si versa l'olio, Taglio, il sale e il pepe. Appena l'aglio imbiondisce, si ritira il pentolino dal fuoco e si uniscono i filetti di acciuga che vanno ridotti in poltiglia con l'aiuto di una forchetta. Si toglie il rosmarino dalla pentola e si versa il contenuto del pentolino. Al momento di servire si toglie anche l'aglio e si aggiunge la pasta corta».
Un altro primo piatto usato in Italia e a Roma è il minestrone.
Minestrone
Per ottenerlo buono e appetitoso occorrono varie verdure: una costa di sedano, alcune foglie di basilico, due carote, due zucchine, due pomodori, una cipolla, 200 g di piselli o fagioli freschi sgusciati (peso netto), 150 g di spinaci o bietole, un pezzetto di cavolo verza (se piace), cinque cucchiai di olio, due litri e mezzo di acqua, 150 g di riso, o di maccheroncini rigati o crostini di pane fritto.
Le verdure ovviamente vanno lavate con cura e più volte, poi vanno tagliate a pezzi e soffritte leggermente nell'olio.
Subito dopo si aggiunge l'acqua, il sale e il pepe e si lascia bollire il tutto per almeno due ore.
Solo allora va aggiunta la pasta o il riso.
Il minestrone è ottimo anche mettendo a cuocere tutte le verdure a crudo, senza far soffriggere nulla.
Inoltre rimane eccellente se si evitano la pasta e il riso.
Un'altra ottima minestra è quella detta brodo vegetariano.
Brodo vegetariano
Si fanno bollire per tre ore in tre litri di acqua 400 g di patate, un sedano, una carota, due cucchiai di fagioli e due di piselli, entrambi secchi. Si cola poi il brodo, lasciando da parte la verdura per servirla come contorno.
Chi preferisce invece passare tutte le verdure, ottiene un brodo più denso per cuocerci o i crostini, o la pastina, o il riso.
Secondi piatti

I pasticci di carne
Ed ora dedichiamoci alla preparazione della pasta sfoglia per i pasticci.
Pasta sfoglia per i pasticci
Si mettono 200 g di farina in una terrina piuttosto capiente, aggiungendo acqua tiepida (1/2 bicchiere), grappa o brandy (un cucchiaio), un pizzico di sale e un cucchiaino di grasso d'oca o di margarina. Si lavorano quindi tutti gli ingredienti fino ad ottenere una pasta morbida e flessibile.
Raggiunto lo scopo la pasta va messa su un tavolo su cui è già stata spruzzata un po' di farina, quindi la si lavora fino a farla staccare dal tavolo e dalle mani.
A questo punto la si lascia riposare per una mezz'ora circa coprendola con un canovaccio.
Ancora un po' di lavorazione della pasta e poi diamoci da fare per stenderla in modo da ottenere una sfoglia rettangolare dello spessore di un centimetro.
Si taglia quindi la parte rimasta del grasso o della margarina in tanti piccoli pezzi che vanno spruzzati di farina e posti su una metà del rettangolo della pasta. Si piega poi l'altra metà della sfoglia in modo da creare una specie di piccolo pacco. Fatto questo lavoro, la pasta va avvolta in un canovaccio e messa a riposare per un'altra mezz'ora nel frigorifero.
Successivamente la pasta va messa di nuovo sul tavolo e stesa con il mattarello, facendo attenzione che i pezzetti di grasso non fuoriescano dalla sfoglia.
A questo punto la pasta va ripiegata in tre in modo da ottenere tre strati uguali fra loro e dello stesso spessore.
La pasta va poi girata verso destra e capovolta su un lato per fare in modo che il lato che era verticale diventi ora quello orizzontale; quindi la si stende di nuovo con l'aiuto del mattarello come è stato fatto precedentemente, fino ad ottenere lo spessore di un centimetro.
La nuova sfoglia va ripiegata in tre con un risultato di tre strati uguali posati l'uno sull'altro.
Riavvolta nuovamente in un canovaccio, la pasta va fatta riposare nel frigorifero per una mezz'ora circa.
Il procedimento esposto va ripetuto per altre due volte, non dimenticando mai la mezz'ora di riposo della pasta in frigorifero.
Un'altra avvertenza importante riguarda i pezzetti di grasso o di margarina che non devono mai né indurirsi né sciogliersi, ma si deve riuscire a portarli a formare uno strato omogeneo fra gli strati di pasta.
Mantenendo costantemente sia il tavolo che il mattarello bene infarinati, con la pasta si deve ottenere una sfoglia sottile che va poi tagliata o a cerchi o a quadrati.
Ciascuno di questi va riempito con un po' del ripieno che si preferisce, avendo poi cura di chiudere bene i bordi.
A conclusione di tanto lavoro i pasticci devono finire nel forno, sistemati per bene in una teglia.
Ed ora non possiamo tralasciare i ripieni per riempire i pasticci o le «buricche». Di quest'ultime veniamo a sapere da Mira Sacerdoti la loro appartenenza a un piatto propriamente ebraico, di origine probabilmente spagnola, in quanto «burro» è una parola che in Spagna significa «asino».
Per l'appunto la forma delle buricche è quella delle orecchie di asino e si ottengono dalla lavorazione della pasta di cui abbiamo già parlato.
Ripieno di carne cruda
Tagliata la carne a pezzi, si affetta una cipolla e si mette il tutto in una pentola, unendo sale, pepe, olio o grasso e un po' d'acqua. La cottura deve effettuarsi dolcemente; poi si unisce del pane inzuppato nel brodo e ben scolato.
Da ultimo si aggiungono uno o due uova secondo la quantità di carne, ossia un uovo ogni tre etti di carne. Una buona mescolata e l'impasto è pronto.
Ripieno di carne cotta
La carne già cotta va impastata con rossi d'uovo (un uovo per ogni tre etti di carne) e uova sode sbriciolate, insieme a sale e pepe. A questo punto le «buricche» possono accogliere il ripieno.
Ripieno di carne e fegato
Con 200 g di carne cruda si fa un soffritto unendo olio, cipolla tritata, sale e pepe.
Aggiunto poi del brodo si fa completare la cottura.
Quando il contenuto del tegame si è bene asciugato, si aggiungono due uova sode sbriciolate, due fegatini di pollo già cotti nell'olio e ben bene tritati.
Si mescola il tutto facendolo legare con altre due uova crude.
Riteniamo probabile che molte ricette della cucina ebraica romana seguano quelle osservate in linea di massima in tutta l'Italia. Così, per esempio, soffermiamo la nostra attenzione su alcune ricette che ci sembrano piuttosto interessanti.
Pasta sfoglia di midollo di manzo
Si mette il midollo (300 g) in una terrina piena d'acqua e lo si schiaccia fino a farlo diventare bianco, privato di ogni traccia di sangue; una volta scolato deve essere lavorato con le mani che lo debbono ridurre ad una palla. Il midollo ottenuto in tal modo va poi pesato perché gli si possa aggiungere un' uguale quantità di farina, l'acqua e una presa di sale. Ancora una buona lavorazione per ottenere una pasta morbida; quindi, senza aggiungere altro grasso, la pasta va lavorata con il procedimento seguito in seno alla pasta sfoglia per i pasticci e che va ripetuto otto volte, con intervalli di dieci minuti fra una lavorazione e l'altra. Si stende quindi la pasta in uno strato sottile dello spessore di 5 mm circa, poi la si taglia a piccoli cerchi oppure a quadrati. In ognuno di questi si mette il ripieno preferito, avendo cura di chiuderli ben bene con le dita. Da ultimo, in una teglia spruzzata di farina, vanno infilati al forno.
«Buttaro, o sia Guardiano di Campagna», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1815.
Pasta brisé
Dopo aver setacciato 150 g di farina, vi si mettono sopra 75 g di grasso vegetale o grasso d'oca o altro grasso ridotto a pezzettini. Si lavora il tutto fino a creare tante palline simili a piselli. Si aggiunge quindi un po' di sale e un po' alla volta una quantità d'acqua fredda pari a due o tre cucchiai. La pasta divenuta una palla va fatta riposare in un angolo fresco per circa mezz'ora. Da ultimo va spianata col mattarello per uno spessore che può variare dipendentemente dall'uso.
Pasticcini di pollo
Ingredienti per la pasta: 200 g di farina, un bicchiere di olio d'oliva, un cucchiaio di olio d'oliva, due uova, sale.
Ingredienti per il ripieno: 400 g di pollo bollito e tritato, due fette di pane secco senza crosta, un po' di noce moscata grattugiata, sale e pepe.
Ed ora spazio alla ricetta di Mira Sacerdoti, prima per la pasta e poi per il ripieno:
«Mescolate la farina con le uova, l'olio e un pizzico di sale e lavorate gli ingredienti fino a ottenere una pasta morbida. Copritela con un canovaccio umido e lasciatela riposare per circa mezz'ora in un luogo fresco o in frigorifero.
Dividete la pasta in sei parti uguali e stendetele con il mattarello, una alla volta, fino a ottenere uno strato del diametro di circa 20 centimetri e dello spessore di due centimetri.
Spruzzate di farina il tavolo da lavoro.
Mettete sul tavolo un pezzo di pasta così ottenuto e spalmatevi sopra un po' d'olio. Appoggiate il secondo pezzo sul primo e di nuovo spalmatene la superficie di olio. Ripetete la stessa operazione per i sei strati di pasta, avendo cura di ungerne sempre con l'olio la parte superiore.
Quando l'ultimo strato sarà sistemato, non ungetelo, ma spruzzatelo di farina.
Stendete con un mattarello il cumulo di strati di pasta così ottenuti, avendo cura di cambiare direzione per stenderli in modo uniforme. Lasciate riposare per circa 10 minuti, poi riprendete a stendere la pasta, cambiando spesso direzione, fino a che avrà raggiunto uno spessore non più alto di 4 millimetri.
Tagliate la pasta con uno stampo in modo da ottenere tanti cerchietti,
mettete un po' di ripieno su ogni cerchietto di pasta e ripiegatelo in due, chiudendolo bene con le dita o con i denti della forchetta. Ricetta per il ripieno: mettete a bagno il pane secco nel brodo, fatelo asciugare, aggiungete i petti di pollo tritati, la noce moscata, sale e pepe e mescolate bene per far amalgamare tutti gli ingredienti».
Brioche ripiena
La ricetta ci viene suggerita da G. Ascoli Vitali-Norsa:
«In una terrina sciogliete 40 g di lievito di birra in poca acqua fredda, aggiungete un uovo, il sale, tre cucchiai di olio e un poco di brodo tiepido e 250 g di farina.
Mescolate bene. Deve risultare un impasto piuttosto molle che poi metterete nello stampo aiutandovi col cucchiaio.
Prendete una teglia con i bordi alti, ungetela e spolverizzatela di pangrattato e versatevi a cucchiaiate un po' più della metà dell'impasto. Aggiungete 5 o 6 fondi di carciofo stufati (o 100 g di funghi secchi, cotti e tagliati a fettine) e un po' di ragù di carne; infine coprite con il resto della pasta.
Lasciate a lievitare in luogo tiepido per un'ora o anche di più, a seconda delle stagioni, fino a che la pasta sarà ben lievitata ed avrà quasi riempito il recipiente. Cuocete per 40 minuti in forno molto caldo».
Strudel di carne
Per la preparazione di questo piatto occorre far soffriggere una cipolla ridotta a fettine con l'olio e un cucchiaio di acqua. Poi si unisce la carne di manzo lessata (400 g) e macinata, qualche cucchiaio di brodo, sale e pepe. Il tutto va fatto insaporire e poi lasciato raffreddare prima di aggiungere al composto un uovo intero, 100 g di uvetta, 100 g di pinoli. La pasta va preparata e stesa sottile, per ricoprirla subito dopo con uno strato di ripieno e quindi arrotolarla tipo strudel. Questo, con la superficie esterna leggermente unta, va messo in una teglia altrettanto unta, per introdurlo poi nel forno.

Le uova
Nella cucina ebraica troviamo anche ricette riguardanti alcune frittate, pietanze estremamente appetitose e di facile preparazione e non completamente diverse da quelle appartenenti alla cucina romana.
Frittata di spinaci
Una volta lessati, scolati e strizzati, gli spinaci (300 g per sei persone) vanno tritati e poi messi in una padella per insaporirli con olio e sale. In un piatto si sbattono sei uova unite ad una presa di sale e subito dopo si uniscono agli spinaci nella padella. Rosolata da una parte, la frittata va rivoltata con un piatto e rimessa in padella con un po' d'olio (appena un goccio) e sarà pronta appena rosolata anche dall'altra parte.
Frittata di lattuga
Sbattute sei uova, si aggiungono tre gambi di lattuga (300-400 g in tutto) tritati molto finemente e la mollica di un panino bagnata nell'acqua e poi bene strizzata. Dopo aver mescolato i detti ingredienti, si versa tutto in una padella unta d'olio e ben calda.
La frittata va girata più volte e cucinata lentamente in modo da permettere alla lattuga una completa cottura. Si raccomanda di avere l'avvertenza di evitare che la frittata bruci nella parte centrale.
Frittata di tonno
Anche questa ricetta ci viene presentata da G. Ascoli Vitali-Norsa e la riportiamo molto volentieri perché ci risulta particolarmente appetitosa e adattissima per un pasto di magro.
«Tritate un cucchiaio di prezzemolo, 60 g di tonno sott'olio e quattro acciughe e mescolate bene. Sbattete in una terrina sei uova con sale e pepe, mettete un po' d'olio in una padella e, quando sarà ben caldo, versatevi le uova sbattute. Quando le uova saranno rapprese, mettete nel centro della frittata il composto di tonno e ripiegate la frittata in modo che racchiuda bene il ripieno. Rovesciate la frittata sul piatto e copritela con salsa di pomodoro calda.» Un altro piatto che ci ha molto incuriosito e che lascia il palato soddisfatto riguarda le uova al nido.
Uova al nido
Si unge di olio una teglia da forno di pyrex per disporvi sei fette di pane, una accanto all'altra, sulle quali vanno messe altrettante fette di lingua di vitello marinata e un tuorlo d'uovo. Quindi si aggiunge naturalmente una presa di sale e una di pepe. Le chiare delle uova vanno sbattute a neve e in tali condizioni vanno messe intorno ad ogni rosso d'uovo, su cui va messo anche un cucchiaino di grasso. La cottura deve avvenire nel forno per alcuni minuti: le chiare è necessario che raggiungano un colore dorato piuttosto leggero.
Uova al sugo di pomodoro e peperoncino
«Mettete a soffriggere cinque cucchiai di olio d'oliva e due cipolle tagliate a fette, aggiungendo un cucchiaio di acqua fredda, in una pentola abbastanza profonda; fate soffriggere fino a quando l'acqua sarà del tutto evaporata e le cipolle avranno acquistato un bel colore dorato. Aggiungete i pomodori, abbassate la fiamma e fate cuocere a fuoco lento per circa 15 minuti, poi aggiungete 250 g di peperoni verdi tagliati fini, due spicchi d'aglio tritato e il pepe, coprite e continuate la cottura, sempre a fuoco lento, per circa un'ora.
Riscaldate il forno a 180 gradi.
Quando siete quasi pronti per servire, versate il sugo in una pirofila larga e poco profonda, preriscaldata.
Scavate nel sugo, con un cucchiaio di legno, sei pozzetti, e fate scivolare con cura un uovo intero in ogni pozzetto. Coprite e mettete al forno per circa 10 minuti, o comunque finché le uova saranno pronte.
È d'uso per molti buongustai aggiungere a questo sugo anche un paio di peperoncini piccanti. Da servire immediatamente.»

Il pesce
Pesce alla griglia
Il pesce innanzi tutto va ben lavato e liberato di tutte le interiora, per essere poi infarinato, o passato sul pangrattato, spalmato di olio e quindi messo sulla gratella già scaldata. Appena la prima parte è bene arrostita, il pesce va rivoltato con delicatezza affinché non si rompa.
Per una buona cottura occorrono 15 minuti per ogni mezzo chilo di pesce.
Quindi lo si posa su un piatto ovale, spolverizzandolo di prezzemolo tritato finissimo: ormai è pronto per essere servito.
Per il pesce in gelatina, un piatto ricco e tipico in Italia compresa Roma, consumato soprattutto nei giorni di festa, sono consigliate due ricette che riportiamo volentieri, una da Mira Sacerdoti e l'altra, indicata come «pesce di nonna Lea», da G. Ascoli Vitali-Norsa.
Pesce in gelatina n. 1
Ingredienti per 4 persone: Un pagello o un luccio o una carpa, interi, di 1 kg circa; una manciata di prezzemolo tritato; un cucchiaio di farina; quattro cucchiai di olio d'oliva; un cucchiaio di uvetta sultanina; un cucchiaio di pinoli; un bicchiere di aceto di vino bianco; mezzo litro d'acqua; due o tre spicchi d'aglio; un limone; sale e pepe.
Si lascia soffriggere in una padella piuttosto profonda contenente olio d'oliva, l'aglio insieme al prezzemolo. Il pesce si passa nella farina e si mette a friggere nella padella fino a quando avrà acquistato un bel colore dorato da ambo i lati.
Si aggiunge l'acqua con l'aceto, il sale, il pepe, l'uvetta e i pinoli; si porta ad ebollizione e si fa cuocere fino a che l'acqua si sarà ridotta a un terzo circa della quantità originaria.
Il pesce va poi rimosso dalla padella, messo ben sistemato in un piatto di portata preriscaldato e, coperto con il sugo rimasto, lo si lascia raffreddare per metterlo successivamente nel frigorifero.
Raffreddando, il sugo diventa gelatina. Tutto è pronto ormai, ma subito dopo aver guarnito il piatto con rametti di prezzemolo e spicchi di limone.
Pesce in gelatina n. 2 o di nonna Lea
Ingredienti: un pesce di polpa soda (luccio, carpa, dentice, ecc. di un chilogrammo almeno); una cipolla; due foglie di alloro; prezzemolo; sedano e carota; due spicchi d'aglio; aceto bianco aromatico; un limone e mezzo; sale e pepe.
Si mette il pesce a lessare in poca acqua salata con una cipolla intera, due foglie d'alloro e l'aceto (mezzo bicchiere) e si fa bollire a lungo fino a che rimarrà un brodo di 3-4 decilitri che va passato poi per un colino fine.
Si dispone il pesce ben spinato sul piatto di servizio. A parte si fa soffriggere in olio, al quale sono stati aggiunti due cucchiai d'acqua, un pesto di prezzemolo e di poca carota e poco sedano, i due spicchi di aglio e un po' di pepe. Quando sarà cotto si getta via l'aglio, si aggiunge un pizzico di sale e il succo di limone, e, subito dopo, il brodetto del pesce. Si versa tutto sul pesce e si serve freddo con la gelatina che si sarà formata.
Un consiglio: i pezzettini del soffritto resteranno a galla e si avrà un piatto di bella figura. È bene allora usare la carota lessata, tagliata a fettine, per guarnire. Così preparati vengono ottimi anche il cefalo e il branzino.
Baccalà in agro-dolce
Occorre 1 kg di baccalà bagnato che, spinato e spellato, va tagliato a pezzi e messo in una teglia contenente abbondante olio caldo. Si sala e si fa rosolare ben bene.
In un piccolo tegame intanto si fa bollire per cinque minuti mezzo bicchiere di aceto, insieme a un bicchiere d'acqua, due cucchiai di zucchero, 50 g di pinoli e 50 g di uva passa. Versata questa salsa sul baccalà, si fa bollire il tutto molto lentamente per circa mezz'ora a teglia coperta.
Aliciotti con l'indivia
Per 8 persone si prende 1 kg di aliciotti, ossia alici piccole; si aprono, si spinano e si privano della testa. Fatto questo le alici vanno ben lavate e fatte scolare. In quanto all'indivia ne occorrono 2 kg di quella bianca, possibilmente, che liberata delle foglie più dure, va messa a scolare senza asciugarla.
In una teglia unta di olio si dispongono a strati alternati le foglie di indivia e le alici, entrambi condite con olio e sale oltre a un po' di pepe. Terminata questa operazione si copre il recipiente, dopo aver pressato leggermente gli strati di pesce e di verdura. La cottura deve effettuarsi in 15 minuti, mentre tanto le foglie d'indivia quanto le alici gradatamente diminuiranno di volume. Appena tutto sarà quasi cotto, la teglia va messa nel forno, riscaldato a 200 gradi, e vi si lascia per 30 minuti, ossia fino a quando si sarà formata sulla superficie del preparato una crosticina dorata. Questo gustosissimo pasticcio può essere consumato sia tiepido che freddo.
Pescatori a Ponte Rotto, in un' incisione di G. Cottafavi.
Acciughe fritte
Sono eccellenti! Per 4 persone sono sufficienti 600 g di acciughe fresche che, liberate della testa e dell'intera lisca, hanno bisogno di una buona lavata.
Fatto questo un'acciuga alla volta va infarinata, immersa in un paio di uova sbattute leggermente salate, infarinata di nuovo e fritta in abbondante olio bollente.
Sarde e carciofi a tortino
L'origine di questa ricetta è senz'altro romana e da gustare particolarmente con i carciofi romaneschi, quindi a primavera.
Per sei persone occorrono 800 g di sarde fresche, sei carciofi (o anche sette), sale, prezzemolo in abbondanza, tre cucchiai di pangrattato, succo di mezzo limone, olio d'oliva, sale e pepe.
I pesci vanno liberati con la punta di un coltello della testa, degli intestini e di tutte le lische. Lavati poi con molta cura sotto l'acqua corrente, vanno sistemati in uno scolapasta per... scolare, naturalmente. In quanto ai carciofi, si tolgono loro tutte le foglie dure e del gambo si lascia solo la parte tenera. Anche la parte superiore va completamente tolta. Insomma deve rimanere del carciofo la sola parte interna, ossia il cuore. Fatto questo con estrema cura ogni carciofo va ridotto a spicchi sottili in senso verticale. Intanto il forno va portato ad un calore di 180 gradi, mentre i carciofi vanno sistemati sul fondo di una teglia unta di olio: si deve ottenere uno strato omogeneo sul quale si lascia cadere un po' di sale, un po' di pepe, un po' di prezzemolo e un po' d'olio. Sopra si dispongono le sarde per formare uno strato; la loro posizione deve risultare circolare e ciascuna sarda deve avere la coda rivolta al centro della teglia.
Ancora una spolverata di sale, pepe, prezzemolo e olio e poi si compone un altro strato di carciofi e sopra un altro strato di sarde. L'operazione va continuata fino air esaurimento dei carciofi e delle sarde, facendo attenzione però che l'ultimo strato deve essere quello delle sarde. Il tutto va poi coperto con il pangrattato cui va aggiunta subito dopo una spruzzatina di olio.
Si infila quindi la teglia nel forno e si avvia una cottura che non deve superare i 45 minuti. Il piatto sarà completo e pronto per essere servito dopo aver ricevuto una pioggerellina di succo di limone.
Triglie con uvette e pinoli
Ecco un altro piatto tipico romano, tradizionale per la cena di Jom Kippur.
In una teglia pirofila si sistema 1 kg e mezzo di triglie intere, versandovi sopra un bicchiere di olio d'oliva e un bicchiere e mezzo di aceto; quindi si aggiungono 300 g di uvetta sultanina, 150 g di pinoli e un pizzico di sale. Coperta la teglia e portata ad ebollizione a fuoco medio, si lascia raggiungere la cottura lentamente per 15 minuti. A questo punto il coperchio va tolto e la teglia va infilata nel forno riscaldato a 180 gradi. Di tanto in tanto il pesce va bagnato col sugo di olio e aceto e quando tutto il liquido sarà stato assorbito, ossia dopo circa 30 minuti, il piatto è pronto per adescare il buongustaio e farlo peccare di gola.
Il tonno è un ingrediente che molto spesso è in grado di risolvere i problemi della nostra mensa. La cucina ebraica lo usa in più parti e in particolare per creare polpettoni davvero appetitosi. G. Ascoli Vitali-Norsa ce ne offre tre ricette che indichiamo perché sono messe in pratica in tutte le comunità ebraiche della nostra penisola, quindi senza dubbio anche nella città di Roma.
Polpettone di tonno n. 1
Per 4 persone si fanno lessare tre etti di patate alle quali, una volta sbucciate e schiacciate, va aggiunto il tonno sott'olio (200 g) ben tritato. Ottenuto un impasto dopo averlo unito alle patate, si passa il tutto per l'apposita macchinetta, allo scopo di ottenere un pastone bene amalgamato da sistemare in un piatto ovale e da spalmare con la maionese.
Infine il prezzemolo tritato e gli spicchi di limone aiutano a dare al polpettone un aspetto elegante e voluttuoso.
Polpettone di tonno n. 2
Per 3-4 persone si triturano 200 g di tonno sott'olio tanto da renderlo finissimo. Si aggiungono 100 g di pane grattugiato, due uova e un po' di noce moscata. Dategli una forma allungata, il polpettone va arrotolato o nella garza o nella carta oleata, per essere messo poi nell'acqua che bolle sufficiente per coprirlo tutto.
L'ebollizione deve durare 25-30 minuti, permettendo l'evaporazione di buona parte dell'acqua. Lasciato raffreddare il polpettone va tagliato a fette, per le quali occorre un condimento di olio e limone o di maionese e di salsa verde.
Polpettone di tonno n. 3
Ingredienti: 200 g di tonno sott'olio; 100 g di pane bagnato nel latte; due uova, 50 g di formaggio grattugiato.
Il pane, dopo essere stato strizzato per bene, va tritato unitamente al tonno e subito si aggiungono le uova insieme al formaggio grattugiato.
Arrotolato in una garza o nella carta oleata, il polpettone nella forma allungata va messo nell'acqua che bolle e lasciato cuocere per 15 minuti. Non bisogna dimenticare che l'acqua lo deve coprire. Passato il tempo richiesto, il polpettone va lasciato raffreddare e poi tagliato a fette e condito con olio e limone o con salsa di tonno, la cui ricetta è la seguente:
Salsa di tonno
Va preparata con l'aiuto del frullatore, in cui si pongono 100 g di tonno sott'olio, un uovo, 25 g di capperi, 4 filetti di acciughe sott'olio, il succo di mezzo limone e un bicchiere di olio d'oliva.
Questa squisita salsa può essere usata anche per le uova sode.
Sogliole (o filetti di sogliola) al vino bianco
Non ci sono aggettivi capaci di evidenziare la squisitezza di questa pietanza straordinariamente eccellente.
«L'unico problema», avverte Mira Sacerdoti, «è che richiede di organizzare bene i tempi di preparazione; per facilitare le cose, di solito io preparo tutto in anticipo». Cercheremo di far tesoro del suo consiglio e cominciamo dagli ingredienti.
Per sei persone occorrono: 4 sogliole, 100 g di burro, 3 cucchiai di olio d'oliva, un cucchiaio di latte, un bicchiere di vino bianco secco, un tuorlo d'uovo, sale e pepe.
Il pesce va disposto in una teglia pirofila unta d'olio, in modo da creare un solo strato, sul quale si versa l'olio, un po' di sale, un po' di pepe e il vino bianco.
La teglia va messa quindi nel forno caldo a 180 gradi e vi si lascia per 15-20 minuti, ossia fino alla cottura completa del pesce.
Si deve avere sempre l'attenzione di ungere di tanto in tanto le sogliole col proprio sugo. Appena il pesce è pronto, va tolto dal forno e dalla pirofila per disporlo senza romperlo nel piatto di portata formando un solo strato anche questa volta. Il piatto va poi coperto e tenuto al caldo.
In un setaccio si passa il sugo rimasto nella teglia e lo si versa in un tegamino per portarlo ad ebollizione fino a ridurlo della metà.
Quindi si toglie dal fuoco e lo si lascia raffreddare. Il tuorlo d'uovo intanto va diluito nel latte e poi mescolato al sugo. Rimesso il tegamino sul fuoco si aspetta che il sugo sia diventato bello denso; allora si aggiunge, sempre mescolando, il burro rimasto per farlo sciogliere completamente nel sugo.
E questo il momento in cui il sugo stesso va versato sul pesce, pronto ormai per essere servito.
Cefalo in umido
Riportiamo questa ricetta dal testo curato da Mira Sacerdoti:
Ingredienti: cefali interi, di circa 300 o 400 g l'uno. Per ogni cefalo occorreranno: un cucchiaio di concentrato di pomodoro, un gambo di sedano tagliato a fettine sottili, due filetti di acciughe, succo di limone, olio d'oliva, sale (attenzione al sale perché le acciughe sono già molto salate), pepe.
Si mette il sedano tritato in una casseruola possibilmente di rame, con un po' d'olio e si fa soffriggere fino all'indoratura del sedano.
Si aggiungono i filetti di acciuga e si mescola con un cucchiaio di legno fino al disfacimento completo delle acciughe stesse. Quindi si aggiunge il pesce per lasciarlo friggere alcuni minuti da una parte e dall'altra, girandolo ogni volta con molta cura affinché non si rompa.
Diluito il concentrato in un po' d'acqua, lo si aggiunge al pesce, insieme al sale, al pepe e all'acqua sufficiente per coprire tutti i cefali. La casseruola va poi coperta per una cottura a fuoco lento.
Dopo va aggiunto il succo di limone, lasciando che il pesce cuocia ancora per 3 o 4 minuti. Subito dopo va messo in un piatto di portata preriscaldato e, una volta coperto, va mantenuto caldo. Il sugo, ottenuto di una certa densità, va versato sul pesce, ormai pronto per essere servito.
«Lo Scoparo», incisione di Bartolomeo Pinelli.

La carne e il pollame
Una ricetta romana di epoca molto remota è quella delle cotolette di vitello con lattuga.
Cotolette di vitello con lattuga
Tenuto presente che la lattuga cotta ha il potere di facilitare la digestione, funzionando anche come diuretico naturale, è facile comprendere il perché delle preferenze per questo piatto da parte di coloro che ce lo hanno tramandato. Per la preparazione occorrono, ammesso che i commensali siano 4, otto fettine di vitello sottili, un ciuffo di lattuga, della farina, olio d'oliva, sale e pepe.
Innanzi tutto le fettine vanno stese su una battilonta, la tavoletta di legno dove una volta si faceva il battuto per le minestre, e poi battute con un batticarne per renderle sottili in modo uniforme. Poi, fettina dopo fettina, si procede all'infarinatura e all'immersione nell'olio bollente contenuto in un tegame. Le fettine devono indorare da ambo i lati e poi quattro di esse vanno sistemate sul fondo di una teglia e coperte con tre strati di foglie di lattuga.
Si procede quindi alla sistemazione di altre quattro fettine da coprire con tre strati di foglie di lattuga.
Fatto questo, si spruzza un po' d'olio e si mette la teglia nel forno riscaldato a 180 gradi per 30 minuti. Dopo di che il piatto è pronto per essere servito.
Scaloppine alla lattuga
Sempre per quattro persone occorrono 400 g di polpa di vitello tagliata a fettine sottili, possibilmente otto in tutto. Dopo averle infarinate, si fanno rosolare dalle due parti nell'olio bollente e subito dopo si salano e si impepano.
A questo punto si dispongono quattro fettine sul fondo di una pirofila ben unta e si coprono con foglie di lattuga accuratamente lavate; quindi si posano altre quattro fettine, coprendole con un nuovo strato di foglie di lattuga.
Una spruzzata di olio e qua e là sulle foglie qualche pezzetto di grasso vegetale o di vitello e tutto è pronto per una cottura di 25 minuti nel forno riscaldato.
Involtini di vitello
Ingredienti necessari per sei persone: 600 g di polpa di vitello, 100 g di vitello e prosciutto d'oca macinati (in sostituzione del prosciutto si può usare della luganega o, come è detta, nel Veneto, salsiccia di manzo), 60 g di midollo di vitello, due cucchiai di mollica di pane bagnata nel brodo e spremuta, due uova, sale e pepe.
Le fettine di vitello, ricavate dalla polpa, devono essere sottili e battute per bene per essere distese sul tagliere e riempite con rimpasto ottenuto con la carne macinata, le uova, la mollica di pane bagnata, il midollo di vitello schiacciato per bene con l'aiuto di una forchetta, sale e pepe: il tutto deve risultare bene amalgamato. Si arrotolano quindi le fettine, chiudendole con degli stuzzicadenti.
Poste in una teglia si fanno rosolare nell'olio bollente e subito dopo si bagnano con un po' di vino bianco che va fatto evaporare. La cottura va completata unendo un po' di brodo. Prima di servire gli involtini è bene togliere gli stuzzicadenti.
Scaloppine al marsala
Nell'olio caldo contenuto in una padella si dispongono 700 g di fettine di vitello o di petto di pollo, precedentemente infarinate e salate.
Si avvia la cottura a calore vivace, avendo l'avvertenza di voltare le scaloppine da una parte e dall'altra.
Quindi si aggiunge mezzo bicchiere di marsala allungato con un po 'd'acqua o di brodo; si lascia poi che la cottura proceda a fuoco lento. Prima di togliere la padella dal fornello, si spruzza un pizzico di prezzemolo tritato. Mentre le scaloppine vengono disposte sul piatto di portata, si diluisce il fondo di cottura con uno o due cucchiai d'acqua e si versa la salsa ben calda sulla carne da servire.
Vitello in gelatina
Per 8 persone si prende 1 kg di spalla di vitello che, salato e impepato, va poi legato stretto come un salame per rosolarlo bene in poco olio e uno spicchio d'aglio.
Subito dopo si toglie l'aglio e si copre la carne con l'acqua, portandola ad un'ebollizione lenta, fino alla cottura del vitello.
Non si dimentichi di unire alla carne anche un piedino, sempre di vitello, che dovrà continuare la cottura per proprio conto perché, essendo più duro, richiede più tempo.
Il vitello, una volta raffreddato, va tagliato a fettine e disposto sul piatto di portata nel brodo rimasto. Quest'ultimo, prima di essere versato, va filtrato attraverso un colino.
Vitello arrotolato per il sabato
Con quattro uova e mezzo chilo di piselli (o di zucchine già stufate o una cucchiaiata di prezzemolo) si prepara una frittata da posare su una fetta di vitello stesa sul tagliere. Si condisce quindi con sale e pepe, si arrotola la carne e la si lega per bene, per cuocerla con acqua e olio. Raggiunta la cottura e fatto ritirare il sugo, si può tagliare la carne per servirla a fette.
Girello di vitello freddo per il sabato
Senza né acqua né ingredienti di sorta, si mettono a cuocere 700 g di girello di vitello con sale e pepe. Il tegame va coperto con un foglio di carta doppia da tenere ferma con un coperchio per tutto il tempo di una cottura piuttosto lenta. La carne getterà abbondante sugo che poi a poco a poco sarà tutto riassorbito.
Questo piatto può essere servito tanto caldo che freddo.
Vitello sott'olio per il sabato
La ricetta è per 8 persone e ci viene indicata da G. Ascoli Vitali-Norsa.
Si pongono in una teglia non troppo grande 1 kg di girello di vitello, una carota, una costa di sedano, una cipolla e poi si fa lessare il tutto con l'acqua sufficiente per coprire la carne. Ottenuta una cottura a fuoco lento il girello va tolto dal brodo, posto in una terrina coperto con olio d'oliva crudo.
Al momento di servirlo si tira fuori dall'olio e si taglia a fettine da disporre in un piatto. In una scodella si mescola qualche cucchiaio dell'olio della carne con il succo di mezzo limone e un po' di sale.
La salsetta va quindi versata sul vitello, mentre l'olio avanzato può essere riutilizzato per un'altra volta o per cuocere della carne, perché non si altera se mantenuto in frigo per diversi giorni.
Un altro tipo di ricetta per le scaloppine, appartenente alla cucina ebraica italiana, e quindi romana, è quella detta delle scaloppine Rebecca.
Scaloppine Rebecca
Si passano 450 g di fesa di vitello o di tacchino, a fettine, nella farina e si passano poi nell'olio contenuto in una padella. La cottura va fatta a fuoco vivace per alcuni minuti badando bene di girare le scaloppine e di bagnarle col vino che deve evaporare completamente.
Le scaloppine vanno allineate sul piatto per ricevere la salsa ottenuta con prezzemolo e cipolla cotti nella padella e uniti al succo di un limone.
Stufatino
Per 4 persone si tagliano a pezzi 600 o 700 g di muscolo di manzo e, messi in un tegame con una cipolla tagliata sottile, uno spicchio d'aglio intero, un po' di salsa di pomodoro, olio, sale e pepe e acqua sufficiente per coprirli, si lasciano cuocere a fuoco lento per tre ore.
Intanto si preparano in un piatto alcune fette di pane arrostito sulle quali al momento di servire a tavola si pongono i pezzi di carne con abbondante sugo ben ritirato.
Lingua di vitello in salsa
La lingua va innanzi tutto ben pulita e immersa nell'acqua bollente per essere privata della pelle. Si «pilotta» in vari punti con cubetti di grasso di vitello avvolti di sale e di pepe. Messa in una casseruola insieme a cipolla e carota affettate, a sale, pepe e un mazzetto di odori, la lingua va bagnata con un bicchiere di vino bianco e coperta dal brodo.
Chiuso con un coperchio il tegame, si lascia che il suo contenuto vada in ebollizione per circa due ore a fuoco lento.
A un certo punto il coperchio va tolto per permettere alla salsa di restringersi. La lingua va servita tagliata a fette e coperta del suo sugo.
Brasato di lingua di vitello
Dice Mira Sacerdoti: il brasato di lingua di vitello viene di solito servito con contorno di patate bollite (preferibilmente novelle) spruzzate con prezzemolo tritato.
Per otto persone occorrono due lingue di vitello (per circa 1 kg), 100 g di funghi secchi, 5 cucchiai di olio d'oliva, mezzo bicchiere di vino bianco secco, 4 cipolle di media misura, tritate, una carota tritata, un gambo di sedano tritato, uno spicchio di aglio tritato, sale e pepe.
Si mettono i funghi a bagno nell'acqua fredda per un paio d'ore.
Le lingue invece vanno messe in una casseruola con le cipolle, la carota e il sedano tritati. Una volta coperte con l'acqua si avvia l'ebollizione.
Si copre quindi con un coperchio, si abbassa la fiamma e si lascia che la cottura si effettui nell'arco di tempo di circa due ore. Tolte dalla casseruola, le lingue hanno bisogno di essere spellate e liberate di tutto il loro grasso, per tornare nel brodo bollente. Si aggiungono l'olio, il vino e i funghi e si lascia che il tutto continui la sua cottura per circa mezz'ora e che il sugo diventi denso.
Pertanto è inutile la presenza del coperchio.
La lingua va servita a fette ricoperte di salsa.
Ragù di manzo della zia Estella
Ingredienti: 4 cipolline novelle, mezzo spicchio d'aglio, prezzemolo, 150 g di polpa di manzo tagliata a dadini, 300 g di piselli sgusciati, 4 carciofi, mezzo bicchiere di brodo.
Si prepara il trito di cipolline, aglio e prezzemolo e lo si fa soffriggere con poco olio in un tegame; poi si aggiunge la carne per farla rosolare. Quindi è il momento dei piselli freschi e dei carciofi privati di tutte le foglie dure e tagliati ciascuno in otto spicchi.
Si condisce con sale, pepe, una puntina di zucchero, si bagna col brodo, si copre il recipiente e si fa cuocere a fuoco lento. Si ottiene così un ragù delizioso, appetitoso, allettante e ottimo anche se servito con contorno di crostini fritti.
Stufato di vitello con le cipolle
Il taglio del girello permette di essere ridotto a fette tutte uguali ma come carne rimane piuttosto asciutta, per cui molte volte è preferibile far cadere la scelta su altri tagli. Tuttavia la ricetta vale comunque ed offre una pietanza appetitosa e succulenta.
In primo luogo si fanno soffriggere nell'olio di una casseruola piuttosto capiente 600 g di cipolle ridotte a fettine sottili e quando si avverte una certa indoratura si mettono 800 g di carne per farla rosolare da tutti i lati, mentre la cipolla continua ad indorarsi ancora. È questo il momento di aggiungere un po' di sale e un po' di pepe.
Sciolto un cucchiaio di farina in mezzo bicchiere d'acqua, si mescola bene e si versa sulle cipolle con l'aggiunta di un altro bicchiere d'acqua. Si copre con un coperchio, si abbassa la fiamma e si lascia che il contenuto della casseruola cuocia fino al disfacimento completo delle cipolle. Qualora la carne dimostrasse non troppa tenerezza, la si continua a far cuocere aggiungendo un po' d'acqua a fuoco lento.
Ottenuta la cottura si lascia raffreddare lo stufato per dieci minuti per poi tagliarlo a fette e disporlo su un piatto di portata. Mescolato quindi bene il sugo di cipolle, lo si versa sulle fette di carne: a questo punto tutto è pronto per essere servito e sottoposto al gusto dei buongustai.
Manzo brasato semplice
È un piatto ebraico italiano che riteniamo appartenente anche alla cucina ebraica romana. La sua ricetta composta per sei persone richiede 800 g di polpa di manzo, due piccole carote, tre coste di sedano lunghe un palmo, mezzo bicchiere di vino bianco secco, mezzo bicchiere di olio d'oliva, sale e pepe.
Il sedano e la carota vanno tagliati a pezzi per posarli in un tegame di modeste dimensioni; poi sopra si pone la carne, unendo sale, pepe e olio e si copre il tutto con l'acqua. Si fa bollire a tegame scoperto per circa due ore oppure più. Appena l'acqua si sarà tutta ritirata, si passa il sugo con un setaccio, gli si aggiunge un pizzico di farina e si rimette il tutto sul fuoco, carne e vino compresi.
A cottura raggiunta si serve il manzo affettato e intinto nel suo sugo. Secondo i gusti personali, prima di togliere il tegame dal fuoco si può spruzzare sulla carne un po' di prezzemolo tritato insieme alla scorza di un limone grattugiata.
Cavolo ripieno per la festa di Simhat Torah
Riguardo a questo piatto è interessante leggere quanto annota Mira Sacerdoti: «È un piatto tradizionale per le feste di Simhat Torah e di Sukkot, senza dubbio perché i cavoli abbondano durante la stagione autunnale, ma probabilmente anche perché il cibo "ripieno" suggerisce simbolicamente l'idea di pienezza. Anche il simbolismo della forma rotonda è importante, perché significa continuità senza interruzione. Nel giorno di Simhat Torah, la festa in cui si celebra la Legge, vengono letti nella sinagoga gli ultimi versi del quinto libro del Pentateuco, e la lettura ricomincia la stessa sera con i primi versi del primo libro cioè della Genesi».
Per sei commensali, dice la ricetta, occorrono 12 foglie di cavolo della stessa misura, 400 g di vitello, tritato fine, due cucchiai di pane grattugiato scottati con un po' di brodo, oppure una tazza di riso bollito, una tazza di salsa di pomodoro, mezzo bicchiere di olio d'oliva, una cipolla piccola tritata, un uovo, brodo, sale e pepe.
Le foglie di cavolo vanno immerse per due minuti in acqua salata bollente e poi stese su una superficie piana.
Nel lavorarle una dopo l'altra, le foglie devono essere liberate della parte centrale più dura; quindi i due lembi vanno uniti dalla parte del taglio. Intanto in una terrina si mescolano la carne e il pane grattugiato (o il riso) con l'uovo, il sale e il pepe. Dell'impasto ottenuto si fanno 12 parti uguali da distribuire sulle varie foglie di cavolo, che successivamente vanno disposte in un tegame, dove è già stato fatto scaldare un po' d'olio per rosolare poi la cipolla fino a completa indoratura. A questo punto si aggiunge la salsa di pomodoro, insieme alle foglie di cavolo legate e al brodo sufficiente per coprirle. Si copre quindi con un coperchio, si abbassa la fiamma e si lascia cuocere a fuoco lento. Quando tutto il liquido sarà diventato molto denso si può dire che le foglie di cavolo sono ormai cotte e pronte per essere adagiate su un piatto da portata preriscaldato; è ora quindi di liberarle dello spago e di essere coperte col sugo di pomodoro per offrire ai commensali un qualcosa di estremamente delizioso.
Questo piatto viene indicato da G. Ascoli Vitali-Norsa come: Jabrak -Fagottinì di verza per Simhà Torà, appartenente alla cucina ebraica italiana. La stessa autrice con un'altra ricetta così si esprime: Cavolo ripieno per Simhà Torà, la cui preparazione avviene come segue:
Per sei persone occorrono: un cavolo verza di circa un chilogrammo, 400 g di carne macinata di manzo, una piccola cipolla, prezzemolo, due cucchiai di pangrattato.
«Togliete al cavolo le foglie esterne sciupate. Fatelo bollire intero per 3-4 minuti in acqua salata, poi aprite le foglie delicatamente senza romperle. Con la carne macinata, il pangrattato, la cipolla tritata fine (meglio se leggermente scottata nell'acqua), il prezzemolo, sale e pepe, preparate un composto e mettete un pochino di questo in fondo ad ogni foglia del cavolo. Richiudete il cavolo facendogli riprendere la sua forma originale e legatelo in croce con uno spago.
Ponete il cavolo in un recipiente, copritelo di brodo e lasciatelo cuocere lentamente per un'ora e mezza ben coperto. Potete anche cucinarlo al forno».
Veduta dall'interno del Portico d'Ottavia, in un'incisione di G. B. Piranesi.
Polpette alla giudia
Per sei persone si cuoce la mollica di due panini raffermi in un po' di brodo, tanto da farla diventare una specie di pappa, di cui si uniscono tre cucchiaiate a 400 g di carne di manzo macinata, a uno o due uova, a sale e pepe e a un pizzico di noce moscata (appena l'odore).
Tutto questo va mescolato ben bene in una terrina, poi con le mani bagnate si riduce l'impasto in tante polpette da passare nel pangrattato.
Una alla volta si versano quindi nell'olio bollente contenuto in una padella per friggerle. Infine, messe in un tegame, le polpette vanno finite di cucinare lentamente immerse in un po' di salsa di pomodoro o nel brodo.
Polpette alle olive
Preparato un impasto uguale a quello delle polpette alla giudia, gli si uniscono 100 g di olive verdi snocciolate e tritate un po' alla buona. La differenza tra questa e la ricetta precedente è davvero minima, ma sufficiente per acquistare un sapore più corposo e gustosissimo.
Un altro modo per gustare le polpette di carne è quello che le unisce agli spinaci, un tipo di verdura frequentemente usata dalla cucina ebraica. Ecco pertanto le polpette con spinaci.
Polpette con spinaci
Usando sempre lo stesso impasto che già conosciamo, lo si unisce agli spinaci cotti e tritati fini fini. Essendo gli spinaci ricchi di acqua, è meglio usare minore quantità di pappa di pane. Le polpette risulteranno morbide, delicate, appetitose, anche se modeste.
Prendono spazio poi le polpette piuttosto... personali, la cui ricetta è stata ereditata da qualche nonna buongustaia e ottima cuoca. Abbiamo così le polpette di nonna Lea.
Polpette di nonna Lea
Si tritano 500 g di carne lessata per condirla con sale e pepe e unirla poi a due uova e a tre cucchiai di pappa di pane cotto nel brodo.
Con l'impasto si formano le polpette per friggerle nell'olio bollente e porle quindi in una padella contenente salsa di pomodoro, o brodo, e un po' di prezzemolo tritato. Per ottenere un piatto profumato, gustoso e saporito occorrono circa venti minuti di cottura.
Andando incontro alla semplicità non possiamo non annotare alcune ricette di facile applicazione.
Pinzette o pizzette ebraiche al marsala
Per sei persone si macinano tre volte 600 g di carne di vitello, unendo sale e pepe. Si formano poi delle pizzette dello spessore di una bistecca e si passano nella farina, per farle cuocere nell'olio di una padella leggermente soffritto. La cottura richiede cinque minuti per ciascuna parte delle pizzette.
Il marsala o il succo di limone vanno successivamente versati e fatti evaporare.
Pinzette o pizzette ebraiche di casa mia (scrive G. Ascoli Vitali-Norsa)
«Macinate tre volte la carne in modo da farne un composto ben liscio, unitevi sale e pepe e, con le mani bagnate fatene delle specie di polpette molto schiacciate, quasi come una bistecca, che cuocerete a fuoco vivo, in padella con poco olio.
Servite con spicchi di limone».
Polpettone col pomodoro
Ricetta per sei persone. Ingredienti: 500 g di carne di manzo tritata, 300 g di salsa di pomodoro liquida, tre uova, 50 g di olive verdi, un peperone giallo o rosso, mezzo bicchiere di olio, sale e pepe.
Spolverizzare un po' di farina su un canovaccio pulito e steso sul tavolo e porvi sopra in uno strato tutto uguale la carne tritata bene amalgamata e cosparsa di sale, pepe e pochissimo aglio tritato fino fino.
Si abbassa quindi con la mano o con un cucchiaio la parte centrale della carne e vi si versano due uova sode sgusciate, le olive snocciolate e il peperone tagliato a strisce e messo per il lungo.
Si arrotola l'impasto uso polpettone, imprigionando le uova e le verdure.
Il rotolo va passato quindi in un uovo sbattuto e subito dopo nel pangrattato e una volta pronto lo si immerge nell'olio bollente di una padella, lasciandolo indorare da tutte le parti. Fatto questo il polpettone va bagnato con il pomodoro per avviarlo ad una cottura della durata di 40 minuti. Si abbia l'avvertenza di coprire il recipiente e di moderare la fiamma.
Polpettone di manzo tritato al limone
Ingredienti per sei persone: 600 g di carne di manzo macinata, due limoni spremuti, due uova intere, 50 g di midolla.
Tutti gli ingredienti vanno mescolati in una terrina allo scopo di ottenere un impasto omogeneo, da mettere in una pirofila unta d'olio. Schiacciato il polpettone con l'aiuto di una forchetta e cosparso di qualche fiocchetto di midolla, si avvia la cottura a fuoco moderato per la durata di 15 minuti.
Milza di bue in padella
Entra in azione un elemento appartenente al cosiddetto quinto quarto del bue, ossia, come si dice a Roma, alle «frattaglie».
Tolta con un coltello la pelle a 700 g di milza di bue, la si taglia a fette, creando poi su ciascuna dei tagli a reticolato allo scopo di sfibrare la milza stessa.
Le fette vanno messe successivamente in una padella contenente olio e uno spicchio d'aglio. Quindi si condisce con sale, pepe e un paio di foglie di salvia. Appena la milza non avrà più il colore rossiccio e sarà cotta, va messa bene accomodata in un piatto, dopo aver gettato via l'aglio. Qualcuno, secondo il proprio gusto preferisce versare un dito di aceto sulla milza prima di toglierla dalla padella. La salsetta è davvero appetitosa perché contiene tutto il sapore della milza stessa.
Milza ripiena
Ancora una ricetta di stampo romano. Liberata dalla pelle, la milza di vitello va macinata insieme ad un po' di grasso, sempre di vitello, unendo anche un uovo, il sale e mezza cipolla tritata. Si mescola il tutto e col composto ottenuto si riempie la pelle della milza, con l'avvertenza di cucirla, subito dopo, e di metterla a lessare nell'acqua fredda.
La cottura va effettuata a fuoco lento affinché la pelle non si rompa e il tempo necessario a tale funzione è all'incirca di un'ora e mezza.
La milza va tagliata appena raffreddata completamente: solo così si possono ottenere delle fettine sottili pronte per essere servite.
Cosciotto di agnello brasato
Eccoci giunti ad un piatto festoso che allieta le nostre mense, anche se di fede religiosa diversa, soprattutto per celebrare particolari solennità.
A Roma per realizzare questo piatto secondo la tradizione ebraica, occorre 1 kg di cosciotto di agnello, mezzo bicchiere di olio, carota, sedano, cipolla, prezzemolo, un bicchiere di vino bianco secco, due bicchieri di brodo, sale e pepe. Con questi ingredienti si possono soddisfare cinque commensali.
In un tegame si fa scaldare l'olio per farvi rosolare l'agnello a fuoco vivace. Fatto questo lo si toglie e lo si posa in un piatto.
A questo punto nel tegame si versano gli ortaggi tritati alla buona, si regola il calore e si lascia che il tutto prenda un bel colore. Se tentano di bruciacchiarsi, è meglio aggiungere qualche cucchiaiata d'acqua.
A coloritura acquistata da parte degli ortaggi, si introduce il cosciotto insieme a quel po' di brodo che potrebbe aver gettato e lo si lascia rosolare unitamente alle verdure. Si condisce quindi con sale e pepe e un po' più avanti, poco alla volta, si versa il vino bianco, per portarlo a evaporazione.
Solo allora si comincia a bagnare l'agnello con il brodo sempre un po' alla volta, con l'avvertenza di mantenere il fuoco basso e il tegame coperto. La cottura va fatta procedere sempre così, bagnando e rivoltando la carne di tanto in tanto.
Quando si avverte che la cottura completa è prossima si abbonda il bagno fino ad ottenere il colore scuro per la carne e una salsa densa e vellutata. È questo il momento per togliere fuori l'agnello, tagliarlo e disporlo su un piatto. Sgrassata la salsa e diluita, se necessario con un po' di brodo o di acqua, la si passa con un colino e, scaldata bene, ci si copre l'agnello, ormai pronto per essere servito a tavola caldo e con un contorno di piselli e carciofi.
È permesso peccare di gola.
Cosciotto di capretto o di agnello arrosto
G. Ascoli Vitali-Norsa suggerisce:
«Scegliete un bel cosciotto di agnello bene in carne, spuntate l'estremità estrema dell'osso e staccate man mano la carne in modo da ottenere una specie di manico. Eliminate le altre ossa, steccatelo con foglioline di lauro (o se preferite aglio e rosmarino) e legatelo con uno spago. Arrostite l'agnello al forno condito con sale e pepe e cosparso di olio. Durante la cottura che durerà 40 minuti per ogni kg di peso, cospargetelo spesso col suo fondo di cottura. Posatelo su di un piatto di servizio ovale caldo. Sgrassate il fondo di cottura, bagnatelo con poco vino bianco che farete ridurre quasi completamente, e servite con questa sailsetta a parte».
«Il Venditore di Capretti», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1831.
Spezzatino d'agnello al limone per Pasqua
Si tratta di un eccellente piatto estremamente semplice per la preparazione e perfetto per essere festosamente accolto in occasione della festa pasquale.
Per sei persone occorre 1 kg e 200 g di agnello, mezzo bicchiere di olio d'oliva, quattro o cinque spicchi di aglio non sbucciati, abbondante prezzemolo tritato, brodo, il succo di uno o due limoni, sale e pepe.
Dopo aver scaldato l'olio in una casseruola, gli si aggiungono gli spicchi d'aglio per farli rosolare fino all'indoratura; quindi si mette la carne tagliata a dadi e si continua a far rosolare mescolando di continuo per permettere alla carne di raggiungere un bel colore dorato.
Si aggiunge un po' di brodo, il prezzemolo, sale e pepe; si copre, si abbassa la fiamma e si lascia cuocere per circa mezz'ora aggiungendo di tanto in tanto un po' di brodo, fino a cottura completa della carne.
A questo punto la si sistema sul piatto di portata preriscaldato, vi si versa sopra il suo sugo, si spruzza il tutto con un po' di limone e finalmente la saporosa leccornia è pronta per essere consumata.
Spalla di agnello con le olive
Ancora un piatto molto popolare a Roma e molto apprezzato perché facilmente realizzabile.
Ingredienti per sei persone: 1 kg di spalla di agnello disossata e arrotolata, 100 g di olive verdi snocciolate e tagliate a metà, sei cucchiai di olio d'oliva, tre carote tagliate a fette, tre cipolle di media grandezza tagliate a fette, una foglia di lauro, due chiodi di garofano, un po' di timo, una tazza di brodo, sale e pepe.
La carne va rosolata da ogni parte nell'olio contenuto in una grossa casseruola.
Si aggiungono le carote, le cipolle, il timo, la foglia di lauro, i chiodi di garofano, sale, pepe e il brodo bollente.
Appena raggiunta l'ebollizione il tutto va coperto e la fiamma abbassata in modo che la carne cuocia lentamente.
Alla fine della cottura, ossia 15 o 20 minuti prima, si aggiungono le olive.
Collo di tacchino ripieno alla romana
Occorrono: un collo di tacchino, due fegatini di pollo o uno di tacchino, due uova crude, un uovo sodo, una tazzina di riso crudo (o due cucchiai di pangrattato).
Rosolati i fegatini e tritati, si aggiungono le uova crude, il riso crudo e l'uovo sodo di cui il rosso va a pezzettini e il bianco tagliato a filetti. L'impasto va quindi salato e impepato per riempire la pelle del collo del tacchino che subito dopo deve essere cucita alle due estremità. Il preparato passa in un tegame contenente un po' d'olio per essere cotto nell'acqua sufficiente che lo copra. Un'ora e mezzo di tempo, in cui ogni tanto si deve avere l'avvertenza di bucare il collo affinché non si rompa. Il piatto va servito freddo e accompagnato da sottaceti.
Budino di pollo all'ebraica
E' una ricetta italiana che ci viene offerta da G. Ascoli Vitali-Norsa e interessa il nostro buon gusto.
Si lessa il pollo con sedano, carota e cipolla in abbondanza, poi lo si disossa appena cotto e lo si taglia a pezzettini per mescolarlo con un cucchiaio di farina, due uova intere, 100 g di funghi secchi già rinvenuti, sale, pepe e droghe a piacere; quindi si frulla tutto insieme.
A questo punto si prende uno stampo da budino, si unge e vi si versa l'impasto da far cuocere per un'ora, a bagno-maria nel forno a fuoco lento.
Pollo fritto
Si prende un pollo che, diviso in otto parti, va messo in una terrina con sale, pepe, succo di un limone e olio. Si lascia il tutto così per almeno un'ora. Dopo, i pezzi si infarinano, si passano nell'uovo sbattuto e si friggono nell'olio bollente fino a farli diventare di un bel colore d'oro. La delizia è pronta per farla in barba agli acciacchi epatici.
Pollo con i peperoni
Ci piace affidarci ai suggerimenti di Mira Sacerdoti e prepariamo questo piatto rispettando le regole della cucina ebraica.
Ingredienti per 4 o 5 persone: un pollo da 1 kg e 500 g circa, tagliato a pezzi di una porzione l'uno, 500 g di pomodori pelati tagliati a pezzetti, 500 g di peperoni verdi tagliati a pezzetti, 100 g di olive nere snocciolate, tre cucchiai di olio d'oliva, tre cipolle tritate, due spicchi di aglio tritato, brodo di pollo, sale e pepe.
«Scaldate l'olio in un tegame largo, asciugate bene i pezzi di pollo, metteteli nell'olio caldo e fateli rosolare bene da tutti i lati rigirandoli più volte. Rimuovete i pezzi di pollo dal tegame, sistemateli in un grosso piatto o in una terrina e teneteli al caldo.
Fate scaldare di nuovo l'olio, aggiungete la cipolla e l'aglio tritati e fateli rosolare mescolandoli con un cucchiaio di legno. Quando l'aglio comincia a scurirsi, rimuovetelo dal tegame e buttatelo via. Continuate a far rosolare la cipolla, finché è dorata, poi aggiungete i pezzi di pollo, i peperoni e i pomodori, sale e pepe, facendo attenzione alla quantità di sale, perché le olive sono già salate; coprite il tegame con un coperchio adatto, abbassate la fiamma e lasciate cuocere per circa un'ora e mezza.
Girate i pezzi di pollo di tanto in tanto e scuotete il tegame per evitare che si attacchino al fondo; se necessario, aggiungete un po' di brodo. Aggiungete le olive mezz'ora prima della fine della cottura».
Salami e carne secca di manzo alla romana
Il pezzo di carne da scegliere è quello chiamato «copertina della pezza», che ha da un lato uno strato di grasso. Lo si cosparge abbondantemente di sale e di pepe e poi si fa seccare per alcune settimane alla temperatura invernale esterna. Questo metodo viene usato anche per far seccare i salami, ossia le budelle di manzo riempite di carne macinata magra, mescolata a pezzi non troppo piccoli di grasso tenero e untuoso. Il salame va poi stretto ben bene e bucato in più parti con uno spillo allo scopo di annullare le bolle d'aria. D'estate invece si sottopongono per seccare al sole cocentissimo del primo pomeriggio alcune fettine di carne tagliate dalla copertina della pezza e cosparse molto abbondantemente di sale e di pepe. Queste fettine secche a Roma sono chiamate «coppiette» e, portate in una cesta ben coperte dagli appositi venditori ambulanti, adescano i frequentatori delle osterie e delle bettole, rendendo felici e soddisfatti gli stessi osti che non fanno in tempo a riempire i mezzi litri richiesti dagli avventori bisognosi di spegnere il fuoco creato loro in bocca dalle «coppiette».
Ai tempi dell'antico Ghetto le «coppiette» venivano fatte con la carne di bufalo anziché di manzo.
Salami di manzo alla romana
Si macinano 4 kg di carne magra insieme a 1/2 kg di grasso (lasciandone un pezzo da parte) tagliato a cubetti.
Si uniscono 250 g di sale, mezza noce moscata, un cucchiaino da caffè di salnitro, pepe forte e pepe garofolato e si impasta il tutto aggiungendo un po' alla volta alquanto olio. Il composto va poi a riempire alcune pelli di collo di tacchino, legandole da ambo le parti, ossia in cima e in fondo, facendo attenzione a bucare qua e là per fare uscire l'aria e pressando per bene. La pelle va poi cosparsa di sale e i salami sono pronti per essere appesi in luogo fresco e asciutto.
Vitello salmistrato
Si tratta di una ricetta italiana applicata anche a Roma.
Ingredienti: 1 kg e 1/2 di vitello (tra il fiocco e la costa), 20 g di salnitro, 30 g di sale fino, 4 g di pepe, 4 g di pepe garofolato, timo, alloro, aglio, maggiorana.
La carne innanzi tutto va liberata da tutte le pelli e da tutti i nervetti, poi si effettua qualche incisione nella carne stessa perché assorba bene il condimento. La parte interna va poi sfregata con sale, salnitro, pepe e un po' di aromi. Si arrotola quindi la carne a forma di salame e la si cuce con ago e filo ai tre lati in modo da far rimanere la pelle esterna completamente chiusa. La carne va strofinata con tutti gli ingredienti anche sulla parte esterna. Si prende quindi una salvietta da cucina per spolverizzarla di sale grosso sul quale va adagiato il salame; anch'esso va spolverizzato di sale grosso, mentre la salvietta ripiegata deve fare assumere al tutto così combinato la forma di un pacco. La carne si pone successivamente in una terrina adagiandovi sopra un piatto con un peso per effettuare lo schiacciamento.
Si lascia il preparato in queste condizioni per tre o quattro giorni in luogo fresco. Fare attenzione a togliere dalla terrina l'acqua formata dalla carne per effetto dello schiacciamento. Subito dopo si rimette il peso e si lascia stare in questo stato per altri cinque o sei giorni: solo al settimo giorno la carne va estratta. Risciacquata poi in acqua fredda, va messa a cuocere in acqua abbondante, a fuoco basso, per circa due ore.
A cottura raggiunta si toglie e si fa raffreddare sotto peso. La pietanza è a questo punto pronta per essere affettata come un salame e servita.

Le verdure
Piselli in tegame
Per quattro persone occorre kg e 1/2 di piselli, quattro cucchiai di olio, mezza cipolla, prezzemolo e circa due bicchieri di acqua.
Cipolla tritata, prezzemolo e piselli vanno messi a cuocere in una casseruola unitamente all'olio, all'acqua, al sale, al pepe e ad un piccolo cucchiaino di zucchero. Il contorno è pronto dopo una cottura lenta a pentola scoperta.
Fiori di zucca
Per sei persone si prendono 10 fiori di zucca, cui va tolta la parte centrale, lasciando un pezzetto di gambo. Ogni fiore deve essere naturalmente ben lavato e scolato, per essere immerso nella pastella e gettato nell'olio bollente. L'indoratura deve risultare da ambo le parti del fiore. Appena cotti, i fiori si pongono su della carta capace di assorbire l'olio gocciolante. I fiori possono essere serviti anche come dolci: basta sostituire il sale con lo zucchero nella pastella e spolverare altro zucchero sui fiori appena tolti dalla padella. Inoltre i fiori diventano gustosissimi se farciti di mozzarella e di un filetto di acciuga salata.
Torzelli
Riportiamo per intero la ricetta di G. Ascoli Vitali-Norsa. Per questo contorno siamo in esclusiva a Roma.
«Generalmente si calcola un piede di indivia per persona ed è un gustoso contorno per gli arrosti o i bolliti caldi. Scartate le coste verdi fino a far rimanere il bel ciuffo bianco e dolce dell'indivia. Fatelo prelessare, scolatelo molto bene, conditelo con sale e pepe e friggetelo in olio caldo abbondante. Portatelo in tavola dorato e croccante».
Che si tratti di un contorno fuori classe è provato anche dall'attenzione che gli rivolge un colosso della poesia giudaico-romanesca: Crescenzo Del Monte, vissuto tra il 1868 e il 1935. Egli seppe dipingere usi, costumi, pregiudizi e tipi e figure e funzioni e cerimonie e vizi e pregi del popolo, «ma di un popolo», dice R Possenti, «sfuggito quasi del tutto all' attenzione del Belli, cioè quello appartenente alla razza ebraica». Grazie a Del Monte il linguaggio parlato del popolo giudaico-romanesco della fine dell'Ottocento e del primo Novecento è pervenuto fino a noi. Diamo un saggio del nostro poeta, adattissimo all'argomento gastronomico:
'O 'nvitato a pranzo
Magna, magna, Moscè, 'un fa' complimenti!
Beve! sente sto vino d' 'ii Castelli. ...
Assaja sta pasticcia 1 è bona... E senti
sti ngkozzamòdde...!2 te', pigliet' ii scèlli3 .
...Magna co 'i mani, stamo fra parenti!...
... Varderne sta carciofela, chi belli
fogli 'nnorati!4 assaja. ...E sti torzelli?5
...Chegrèvi! manco toccheno lidenti.
...Te piace più caciotta o marzolina ?
... 'N altra récchia-d'Alànne!6 ...un'altra frutta..
Bè, u ' mmicchierin de grappa: è sopraffina!
...Sgrùulla..!7 'Un te piglia cosa8 , rutta, rutta!
...E mo 'a gioncata... Eh!? una cucchiarina!
Ma mette tutto jò, tanto se butta!
...Che troppa! tutta, tutta.
Tanto mo, un bòn cafè... e un bòn chalòmme...9
e domana va tutto pe macòmme10 .
Melanzane ripiene
Si prendono, per sei persone, altrettante melanzane, si tagliano per il lungo e si liberano della polpa interna lasciando uno spessore di circa un centimetro. Si ha l'impressione di aver creato delle barchette da spruzzare con olio e sale. Con 200 g di carne di manzo macinata e la polpa delle melanzane si fa un impasto bene amalgamato. In una padella intanto si fa soffriggere nell'olio mezza cipolla tritata e uno spicchio d'aglio.
Quando tutto avrà ottenuto un leggero colore oro, si aggiunge l'impasto e si lascia rosolare a fuoco un po' vivace; poi si condisce con sale, pepe, un pizzico di zafferano e due o tre foglie di basilico. Per circa dieci minuti si dà via libera alla cottura, abbassando la fiamma, fino ad ottenere il disfacimento completo della polpa delle melanzane. Appena il composto sarà pronto, lo si mette nelle «barchette» delle melanzane destinate a finire in una teglia con il fondo coperto di olio. Un altro filo di olio va anche versato sulle melanzane, ormai pronte per entrare nel forno e restarci per circa un'ora a fuoco moderato.
Un po' di salsa di pomodoro calda, improfumata con alcune foglioline di menta, completa la preparazione delle melanzane che, spalmate col nuovo ingrediente, non aspettano altro che la festosa accoglienza dei commensali.
Melanzane alla giudia
Ingredienti necessari per sei commensali: 1 kg e 200 g di melanzane, 4 bicchieri di olio d'oliva, tre spicchi di aglio tritato, una manciata abbondante di prezzemolo tritato, sale grosso.
Per questo piatto si preferiscono le melanzane lunghe e piccole, da tagliare in quattro parti per il lungo; ogni parte va poi tagliata a pezzetti di due centimetri circa.
Messe le melanzane in uno scolapasta, si aggiunge un pugno di sale grosso e si copre con un piatto con sopra un peso. Occorrono due ore perché l'amaro delle melanzane venga spurgato. Intanto in un tegame si fa scaldare l'olio, aggiungendo l'aglio tritato, un po' di prezzemolo e le melanzane tolte dallo scolapasta, sciacquate sotto l'acqua corrente e bene asciugate.
Coperto il tegame con un coperchio si lascia cuocere il suo contenuto a fuoco moderato.
Appena le melanzane hanno raggiunto la tenerezza, si toglie il coperchio, si alza la fiamma e si permette una cottura a fuoco vivo fino ad ottenere per le melanzane un colore alquanto scuro.
Una volta pronte si tolgono dall'olio con una «schiumarola» e si sistemano in un piatto: una spruzzatina di prezzemolo e le melanzane alla giudia sono belle e pronte per soddisfare il buon gusto dei commensali.
Caponata di melanzane alla giudia (per sei persone)
Si sbucciano sei melanzane, si tagliano a cubetti, si salano e si scolano ben bene. Poi si passano nella farina e si friggono in olio abbondante. Intanto si rosolano un po' nell'olio sedano, carota, cipolla, basilico, tutti ben tritati; si aggiungono i pomodori pelati maturi (un kg), 50 g di capperi, 100 g di olive snocciolate, un cucchiaio di aceto, un cucchiaio di zucchero, sale e pepe in abbondanza. Occorre una buona cottura per ottenere una salsa piuttosto densa, alla quale si uniscono le melanzane fritte. Durata 10 minuti.
Una volta pronta la caponata va disposta su un piatto e guarnita con pangrattato, capperi e due uova sode.
Un'altra ghiottoneria facilmente reperibile sulle tavole romane, senza distinzione religiosa, è quella delle zucchine ripiene.
Zucchine ripiene di carne
Per sei persone occorrono 10 zucchine piccole fresche e possibilmente romanesche. Si vuotano poi con l'apposito strumento facendo attenzione a non romperle. Aiutandosi quindi con un dito si introduce in ciascuna zucchina l'impasto preparato con 200 g di carne tritata, un uovo, un po' di mollica di pane bagnata nel brodo e poi strizzata, sale e pepe e noce moscata. A questo punto si presentano due diverse versioni per la preparazione finale.
Prima versione: con le zucchine riempite si forma uno strato sul fondo di una teglia, si aggiunge un po' d'olio e un pezzo di cipolla tagliata sottile. Dopo una leggera rosolatura si aggiungono due o tre cucchiaiate di pomodoro da sciogliere nel brodo insieme a sale e pepe. Dopo un'ebollizione di alcuni minuti, la teglia, coperta, va passata nel forno e lasciata lì per circa un'ora. Se il pomodoro dovesse asciugarsi troppo, è necessario aggiungere altro brodo.
A cottura completa le zucchine risulteranno cotte, ma non disfatte e il sugo denso e saporito.
Seconda versione: invece di far cuocere le zucchine nel sugo, si può preferire una teglia in cui è stata fatta soffriggere mezza cipolla.
Le zucchine un po' alla volta riusciranno a rosolare, anche bagnate ogni tanto da qualche cucchiaio di acqua. Alla fine saranno bene appassite senza abbrustolire. In questo caso si può fare a meno del forno.
L'Isola Tiberina e, a sinistra, il Ghetto degli Ebrei, in una incisione di Giuseppe Vasi.
Carciofi alla giudia
Chi potrà mai rinunciare ad una leccornia di questo genere? Inoltre non dimentichiamo che Roma gode del privilegio di una speciale qualità di carciofi, detti per l'appunto «romaneschi», caratterizzati dalla loro forma rotonda a mo' di palla. La zona compresa tra Ladispoli e Civitavecchia porta il vanto di fornirne in abbondanza, tanto da far godere eserciti di buongustai nel periodo felice della primavera.
La pulitura del carciofo deve essere molto accurata, addirittura pignola, perché le foglie devono risultare tutte tenere in uguale misura. Insomma la masticazione del carciofo deve essere priva di ogni disgustosa sorpresa in modo da evitare l'eliminazione dalla bocca dei cosiddetti «zeppi». A buon intenditor...
Torniamo a noi, anzi affidiamoci ai suggerimenti di G. Ascoli Vitali-Norsa: «Pulite i carciofi facendoli ruotare lentamente con la mano sinistra (se non siete mancini), mentre sta ferma la mano destra che fa penetrare la lama di un piccolo coltello ben affilato nella polpa del carciofo. Così il taglio si effettua a spirale e di ogni foglia viene ad essere eliminata la parte dura e conservata la parte tenera.
Metteteli per qualche minuto a bagno in acqua acidulata con parecchio limone. Scolateli, asciugateli e batteteli uno contro l'altro per allargare le foglie.
Condite nell'interno con abbondante sale e pepe.
Friggete in olio molto abbondante, che i carciofi ne risultino quasi coperti; il gambo resterà in alto. Tenete il fuoco moderato e dopo un po' voltate i carciofi per cuocere anche la parte di sopra. Poi rimetteteli dritti e schiacciateli un po' contro il fondo del tegame.
Quando saranno quasi cotti spruzzate qualche goccia di acqua fredda sui carciofi nell'olio bollente per rendere il carciofo morbido e insieme croccante.
Si tengono ancora un po' al fuoco, si sgocciolano bene e si servono caldi».
Pasticcio di cervello e carciofi romaneschi
Si prende un cervello di vitella del peso di circa 500 g e si pulisce secondo le buone norme; poi si pre-lessa in acqua salata e, dopo raffreddato, si taglia a fettine.
Si prendono pure 5 bei carciofi romaneschi, si puliscono come già sappiamo e si tagliano a fettine sottili.
Successivamente si forma in un tegame da forno uno strato di carciofi e uno di cervello e si ripete tale preparazione fino ad esaurimento sia dei carciofi che del cervello.
Ogni strato va condito con olio, sale e cannella.
Si aggiunge poi un tantino di acqua per ammorbidire i carciofi, prima di mettere sul fuoco il tegame coperto.
Passati 15 minuti si mette il tegame nel forno per ottenere una bella coloritura e vi si lascia per circa una ventina di minuti.
Carciofi con lattuga
Si prende 1 kg di lattuga per lessarla in acqua abbondante. Una volta cotta, va poi scolata. A parte si preparano 10 carciofi tagliandoli in quattro parti e quindi mettendoli in bagno per 10 minuti in acqua e limone. Fatto questo si mettono i carciofi in un tegame insieme all'olio, a uno spicchio d'aglio e ad una cipolla tritata sottile. Per la cottura occorrono circa venti minuti e la copertura di un coperchio. Passato detto tempo si aggiunge la lattuga bene sgocciolata e unita a sale e pepe. Il tegame va tolto dal fuoco quando il contenuto risulta bene ritirato. Ai commensali si serve caldo.
Fagioli con la lattuga
Si tratta di un'antica ricetta che ci viene offerta da G. Ascoli Vitali-Norsa e che riportiamo volentieri:
Ingredienti per 8 persone: 500 g di fagioli, uno spicchio d'aglio, 5 o 6 cespi di lattuga, prezzemolo tritato, sale e pepe, salsa di pomodoro. «Ammollate e lessate i fagioli come di consueto, fate soffriggere in una casseruola mezzo bicchiere abbondante di olio con uno spicchio di aglio; quando l'aglio sarà rosolato gettatelo via e aggiungete la lattuga trinciata sottile col coltello.
Aggiungete una cucchiaiata di prezzemolo tritato e lasciate soffriggere a fuoco lento per circa 15 minuti. Condite allora con sale e pepe e poca salsa di pomodoro, bagnate con un po' di brodo e lasciate cuocere piano per un'ora; poco prima di andare in tavola, aggiungete i fagioli e fateli insaporire nell'intingolo».
Lattuga romana stufata o lattuga brasata all'antica
Ingredienti per 4 persone: 6 cespi di lattuga romana piccoli, 100 g di grasso d'oca, o di olio d'oliva, due tazze di brodo, due carote affettate, tre cipolle affettate, un po' di prezzemolo tritato, sale e pepe.
Suggerisce Mira Sacerdoti: «Lavate i cespi di insalata senza staccare le foglie dal cuore. Sistemateli in un tegame, piegati in senso orizzontale, uno vicino all'altro. Versatevi sopra dell'acqua bollente, condite con un po' di sale, coprite e lasciate cuocere per 10 minuti. Togliete i cespi di lattuga dall'acqua molto delicatamente, sciacquateli con acqua fredda e lasciateli scolare. Mettete il grasso d'oca o l'olio d'oliva in una pirofila e sistematevi sopra le carote e le cipolle tagliate a fettine; poi aggiungete i cespi di lattuga, cercando di formare un solo strato. Spruzzate tutto con sale e pepe. Lentamente, senza disturbare gli strati di verdura così formati, aggiungete il brodo e il prezzemolo tritato. Mettete la pirofila nel forno preriscaldato a 180 gradi e lasciate cuocere per un'ora o comunque finché tutto il liquido sarà evaporato. Più a lungo il piatto sta nel forno più diventerà gustoso. Da servire caldo».
Lattughe farcite
Per 4 persone occorrono 4 bei cespi di lattuga, 100 g di olive nere, 50 g di filetti di acciughe, 50 g di capperi, olio, poco sale.
Le foglie estreme delle lattughe vanno tolte se necessario; l'importante è il lavaggio accurato sotto l'acqua corrente; poi le lattughe vanno capovolte su un telo affinché scolino per bene. Si spezzettano le olive e i filetti di acciughe e si distribuiscono con i capperi tra una foglia e l'altra delle lattughe. I cespi vanno quindi messi, ben chiusi, in una teglia contenente un po' d'olio. Si cosparge il tutto con altro olio e pochissimo sale, si copre la teglia e si tiene a fuoco moderato per circa 20-25 minuti. Il volume delle lattughe all'inizio sembrerà eccessivo, ma durante la cottura detto volume diminuirà di molto.
1 Pasticcio di carne fatto in casa.
2 Specie di spezzato di pollo o tacchino.
3 Le (ascelle) ali.
4 (indorate) le foglie biondo-oro dei carciofi cosiddetti «alla giudia».
5 Grumoli dell'indivia soffritti in padella come i carciofi di cui sopra.
6 Orecchie d'Amàm - sorta di foglie, dolce speciale degli ebrei.
7 «Sgrullare» o «sgrullarsi» un bicchiere: vuotarlo fino in fondo.
8 Non ti prender soggezione.
9 Sonno.
10 Per il luogo-con...sueto.
Pastella

Ha le funzioni di ingrediente prezioso e gustoso nella preparazione di particolari fritti come i fiori di zucchine, ad esempio, e i filetti di baccalà, di cui siamo ghiotti tutti, indistintamente.
Di tali filetti era «innamorato» anche Antonello Trombadori che ne parla citando «Jolanda», un tempo la friggitora di largo dei Librari, piccola insenatura di via dei Giubbonari.
Ascoltiamolo:
Pe vedè si er filetto è ar punto giusto
de colore, de scrocchio e de frittura,
devi arivà a sentì coll'occhi er gusto
e immagginatte l'inzaporitura.
Cor zinale legato a mezzobusto,
Jolanda sta de guardia a la cottura
da quanno butta giù l'ojo dar fusto
fino ar bollore de l'indoratura.
Va' a li Libbrari si la vói guardà
e si te vói 'mparà l'arte e er talento
de 'mbiancà de pastella er baccalà.
Milleducento lire a portà via.
Ar tavolino millequattrocento,
d'oro com'er carciofo a la giudia.
Torniamo alla pastella e affidiamo il compito di dettarcela a Mira Sacerdoti:
«Rompete due uova in una terrina, aggiungete un cucchiaio di olio d'oliva e sbattetele con una forchetta; poi aggiungete sei cucchai di farina, un pizzico di sale e continuate a mescolare finché avrete eliminato tutti i grumi.
Se necessario aggiungete un po' d'acqua, ma ricordate che la pastella deve essere densa.
Fate scaldare l'olio in una padella, poi prendete l'ingrediente da friggere e lasciatelo indorare senza bruciacchiarlo».
A volte si preferisce non usare le uova, oppure aggiungere un po' di lievito di birra; questa versione è seguita per i filetti di baccalà. E intanto Crescenzo Del Monte interviene ancora con
'A reghela n' 'ii pasti
Cià' un chiodo 'n corpo! e sfido! e 'o trovi strano?!
e te ce lagni?! e statte zitto, almeno!
Te 'nfurzi tròo-ppo! 'o corpo è troppo pièe-no!11
Fa' come faccio io, caro Grazziano.
Io magno un dì più forte e un dì un pò meno:
perchìne, «un pasto bono e uno mezzano
mantiè'» dice 'l proverbio «l'omo sano»
e' un rischi d'esse mmai troppo repièno.
Iere ebbe rizzo, concia e cacciunelli12 :
òe, baccalà e ciccorria 13 , un filo appena:
domana, se Dio vo', pollo e torzelli14 .
Quant 'a vino, 'un c'è caso che me sposti:
un fiasco a pranzo e do' foglietti a cena
e un po' più, se ce so' li callarosti15 .
11 (Come cantando queste parole) - 'nzurfasse: impinzarsi di cibo.
12 Riso, zucca marinata e fagottini di trippa.
13 (Cibo del venerdì).
14 Ciuffi d'indivia spogliati delle foglie esterne, rosolati in padella (da mangiar freddi - come il pollo lesso - di Sabato).
15 Caldarroste. Variante: Quant' a vino, ce vaio sempre piano: / un fiasco a pranzo e do' foglietti a cena / e lo Sciabàdde calco un po' la mano.
Dolci

Hallà o pane del sabato
Dice G. Ascoli Venturi-Norsa: «È il pane che non deve mai mancare sulla tavola del sabato; deve essere fatto di farina bianchissima perché ci ricorda la manna che il Signore mandò agli Ebrei nel deserto; i pani devono essere due perché due furono le dosi di manna che Dio fece cadere. Sono fatti a treccia perché simboleggiano un serto nuziale. Infatti in tutta la simbologia ebraica il sabato è paragonato alla sposa. Prima di infornarlo la massaia toglie un pezzetto di pasta lievitata e la brucia, dicendo la prescritta benedizione. Questo in ricordo del tempo in cui i pani venivano portati, insieme alle altre offerte, al sacro Tempio di Gerusalemme».
La ricetta del pane Hallà è così delicata che riteniamo importante riportarla fedelmente secondo il testo di G. Ascoli Vitali-Norsa: «Ponete dunque tutta la farina in una terrina piuttosto grande. In una ciotola molto più piccola sciogliete lievito con poca acqua tiepida, un cucchiaino di zucchero, un cucchiaio di farina, sì che ne risulti un impasto cremoso, quasi liquido. Fate un incavo nella terrina della farina, nel centro, e in esso posate la ciotola del lievito. Così il lievito sarà al caldo e inoltre, quando traboccherà dalla ciotola, andrà a finire nella farina. Coprite il tutto e tenetelo in luogo tiepido. Dopo poco più di mezz'ora vedrete il lievito crescere e diventare come un spuma; allora versate il tutto sulla spianatoia leggermente infarinata, unitevi il sale, l'olio, i semi di anice lavati (30 g) e asciugati e impastate bene in modo che venga un impasto liscio e morbido. Aggiungete, se necessario, poca acqua. Dividete ora la pasta in due pezzi uguali, (dopo averne tolto un piccolo pezzo per bruciare) per fare i due pani. Di ognuno di questi pezzi fatene tre parti uguali che foggerete a forma di cannello con le due estremità un po' appuntite. Disponete sulla placca del forno i tre pezzi, posati uno sull'altro e fate una treccia. Lasciate le trecce a lievitare al caldo per un'altra mezz'ora e infornate in forno molto caldo; dopo 5 minuti abbassate la temperatura e lasciate cuocere ancora per circa 40 minuti. Per rendere più bella la "Hallà", prima di infornarla, si usa spennellarla di rosso d'uovo facendo però attenzione a non schiacciarla».
Diamanti romani
Ingredienti: 2 kg di farina, 500 g di zucchero, 300 g di pinoli, 300 g di mandorle tritate, 30 g di scorza di limone tritata fine, 300 g di uvetta sultanina, due bicchieri di olio d'oliva, vino bianco dolce.
Si tratta di preparare un certo tipo di biscotti che a Roma la comunità ebraica consuma nei giorni di festa.
Si fa scaldare l'olio leggermente, quasi a temperatura ambiente. Si versa la farina in una terrina ben lavata con acqua calda e accuratamente asciugata. Si aggiunge l'olio tiepido per mescolarlo con le mani alla farina tanto da farglielo assorbire tutto. Si mettono poi tutti gli ingredienti e si continua a lavorare fino ad ottenere una pasta morbida.
Si stende quindi col mattarello per ottenere una sfoglia spessa circa 6 mm. La pasta va poi tagliata a forma di diamanti del diametro di circa 70 mm e con un coltello si incidono dei piccoli tagli sulla superficie. Una teglia spruzzata di farina accoglierà quindi i biscotti per farli cuocere nel forno a 180 gradi. Appena acquistato un bel colore dorato scuro, i «diamanti romani» sono pronti per appagare la gola deliziosamente.
Orecchie di Amman
Possono essere servite o spruzzate di zucchero a velo o intinte in uno sciroppo di zucchero. Comunque vada si tratta di una leccornia che va apprezzata e degustata ad occhi chiusi, come in attesa di un sogno.
Ingredienti: ricetta n. 1 : mezzo bicchiere di olio d'oliva, un cucchiaio di zucchero, 4 uova, farina, due cucchiai di brandy, un pizzico di sale.
Ricetta n. 2: 60 g di zucchero, 4 cucchiai di olio d'oliva, 4 cucchiai di vino bianco secco, 4 uova, farina, un pizzico di sale.
Ricetta n. 3: 300 g di farina, 3 cucchiai di zucchero, 3 cucchiai di olio d'oliva, 3 cucchiai di mm, 3 uova, scorza di limone grattugiata, un pizzico di sale.
Senza distinzione tra una ricetta e l'altra la prima cosa da fare è quella di mescolare tutti gli ingredienti e di lavorarli fino ad ottenere una pasta morbida e flessibile. Poi bisogna stenderla col mattarello in uno strato sottile, per tagliarla successivamente a rettangoli o a triangoli da friggere nell'olio bollente. Tolte dalla padella, le orecchie di Amman vanno messe a scolare su fogli di carta assorbente e spruzzati abbondantemente di zucchero a velo.
Pignoccate
Anche questo dolce è tradizionale e va consumato nella festa di Purim.
Si prendono 500 g di zucchero e si mettono in un pentolino con l'acqua per farlo sciogliere a fuoco basso, evitando che scurisca. Si aggiungono 400 g di pinoli e 50 g di cedri canditi e si mescola bene con una frusta.
Non appena lo sciroppo comincia a bollire, va subito tolto dal fuoco lasciandolo raffreddare senza fermarsi di mescolarlo. Lo sciroppo freddo deve essere manipolato con le mani bagnate per creare delle piccole forme allungate che vanno messe ben sistemate su cialde di wafer sottili o su della carta di riso e lasciate asciugare, prima di servirle, per la durata di almeno una giornata.
Cassola
Ingredienti: due tazze di riso, un litro di latte, 500 g di ricotta, 300 g di zucchero, 5 uova, un pizzico di cannella, 3 cucchiai di olio d'oliva per friggere.
Il riso va bollito nel latte fino a raggiungere la tenerezza e l'assorbimento del latte stesso. Si raccomanda di mescolare spesso per non permettere al riso di attaccarsi. Con lo zucchero si sbattono le uova e dopo si aggiungono gli altri ingredienti, meno che l'olio, e si mescola con cura per ottenere un composto bene amalgamato. Si scalda l'olio in una padella e si fa in modo che ricopra in modo omogeneo sia il fondo che i lati. L'impasto va versato nell'olio molto caldo e lasciato cuocere a fiamma bassissima.
Si ottiene così una specie di frittata che va girata con l'aiuto di un piatto piuttosto grande: il movimento del passaggio della frittata dalla padella al piatto e dal piatto alla padella deve essere rapidissimo. Una volta rovesciata, la frittata continua a cuocere colorandosi così da ambo le parti.
Torta classica di mandorle per Pesah (Pasqua)
Per sei persone si lavorano bene i tuorli di sei uova con 300 g di zucchero, 300 g di mandorle tritate, due cucchiaini di maraschino (se piace) e in ultimo le chiare a neve soda. Quindi si versa il tutto in uno stampo unto e infarinato o rivestito di carta oleata altrettanto unta.
Il forno da parte sua contribuirà per una cottura di 30 minuti a calore moderato.
«La vendemmia», incisione di Bartolomeo Pinelli.
Scodelline (dolce classico italiano per Pesah)
La ricetta ci viene dettata da G. Ascoli Vitali-Norsa:
Ingredienti per una persona: un uovo (solo il rosso), un cucchiaio di zucchero, sei mandorle dolci, una mandorla amara, cannella, una chiara ogni cinque uova.
Mettete lo zucchero al fuoco con poca acqua, un cucchiaio per ogni uovo (tanta da bagnarlo) e fatelo bollire fino a che attacca (non deve assolutamente scurirsi).
Pelate e tritate le mandorle e gettatele nello zucchero e, quando non sarà più bollente, unitevi i tuorli, uno alla volta, mescolando sempre.
Cuocete il composto a bagno-maria, sempre mescolando, possibilmente in un recipiente di pyrex, a fuoco lento per 30 minuti e anche più, fino a che il composto si addensi e sia scomparsa tutta la schiuma. Unite la grattatura di limone e togliete dal fuoco. Mescolate ancora fino a che il composto si raffreddi e aggiungete le chiare montate a neve. Mettete nelle tazzine e spolverate di cannella. Per 24 uova servono 200 g di mandorle pelate».
Pasta frolla
Si dispongono 250 g di farina a fontana sul tavolo; al centro si mettono 125 g di burro a pezzettini, un uovo e un tuorlo e 110 g di zucchero. Si impasta il tutto rapidamente e lo si lascia riposare per mezz'ora al fresco: la pasta frolla è pronta.
Dictinobis - Ciambelle di Kippur
Si sciolgono 60 g di lievito in acqua tiepida insieme a circa 180 g di farina. La lievitazione deve avvenire durante qualche ora, poi a lievito cresciuto vi si fa sciogliere di nuovo con mezzo bicchiere d'acqua e si aggiungono due uova, un decilitro di olio, 100 g di zucchero, l'odore della scorza di un limone grattugiata, l'odore di vaniglia e la cannella e la farina sufficiente per ottenere una pasta morbida e liscia, dalla quale si devono ricavare delle ciambelle da far lievitare in luogo tiepido per diverse ore. Le ciambelle vanno poi fritte in olio caldo e quindi servite con una spolverata di zucchero a velo.
Abbiamo offerto quello che ci è stato possibile mettere insieme, limitandoci a cogliere fior da fiore dal meglio della cucina ebraico-romanesca.
«Ma se invece», a dirla col Manzoni, «fossimo riusciti ad annoiarvi, credete che non s'è fatto apposta».
Buon appetito!
«Carri di Fieno, trasportati dalla Campagna in Roma, per riportarlo nei Fienili, nel mese di Giugno», incisione di Bartolomeo Pinelli, 1820.
Bibliografia essenziale
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A. Trombadori, Indovinela-Grillo, Roma, Newton Compton editori, 1984.
Indice
Quadrucci all'uovo con piselli
Minestra di broccoli con l'arzilla
Polenta con le spuntature di maiale
Fettucine alla romana con regaglie di pollo
Spaghetti all'aglio, olio e peperoncino
Linguetta di vitella in salsa verde
Lingua di vitello fredda in salsa piccante
Coratella d'abbacchio con i carciofi
Costolette d'abbacchio a scottadito
Fave col guanciale alla romana
Lenticchie col cotechino e lo zampone
Frittata di patate un po' a modo nostro
Pizza di polenta con la ricotta
Pizza di polenta con lo zibibbo
Rosh Ha-Shanah (il Capodanno ebraico)
Jom Kippur (giorno dell'espiazione o del perdono)
Sukkot (Festa del raccolto e delle capanne)
Simhat Torah (La celebrazione della legge)
Shabbat Beshalah (Il miracolo del Mar Rosso)
Tu Bi-Shavat (Festa del capodanno degli alberi)
Shavuoth (Festa delle primizie)
Tagliolini freddi alla ebraica
Risotto di Shabbat (ossia del sabato) o riso Pilaf
Minestra di ceci con i pennerelli
Minestra di lenticchie di Esaù
Minestra di pasta e lenticchie
Pasta sfoglia di midollo di manzo
Uova al sugo di pomodoro e peperoncino
Pesce in gelatina n. 2 o di nonna Lea
Sogliole (o filetti di sogliola) al vino bianco
Cotolette di vitello con lattuga
Vitello arrotolato per il sabato
Girello di vitello freddo per il sabato
Vitello sott'olio per il sabato
Ragù di manzo della zia Estella
Stufato di vitello con le cipolle
Cavolo ripieno per la festa di Simhat Torah
Pinzette o pizzette ebraiche al marsala
Pinzette o pizzette ebraiche di casa mia
Polpettone di manzo tritato al limone
Cosciotto di capretto o di agnello arrosto
Spezzatino d'agnello al limone per Pasqua
Spalla di agnello con le olive
Collo di tacchino ripieno alla romana
Salami e carne secca di manzo alla romana
Caponata di melanzane alla giudia
Pasticcio di cervello e carciofi romaneschi
Lattuga romana stufata o lattuga brasata all'antica
Torta classica di mandorle per Pesah
Dictinobis - Ciambelle di Kippur